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verso gli altari

Padre Kapaun, una vita offerta a Dio nell'inferno nordcoreano

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Sarà venerabile il cappellano statunitense morto nel 1951 in un campo di prigionia in Corea del Nord a soli 35 anni, letteralmente consumato dalla carità pur di assicurare ai compagni di sventura le cure materiali e il conforto della fede. Una duplice vocazione, quella di sacerdote e militare, vissuta fino all'estremo sacrificio.

Ecclesia 01_03_2025

Consumarsi per Dio: è la chiamata che il cappellano militare Emil Joseph Kapaun aveva avvertito sin dalla sua ordinazione, nel 1940 in Kansas, senza immaginare quanto lontano lo avrebbe condotto. Lontano in tutti i sensi, prodigandosi per i compagni di prigionia nell’inferno comunista della remota Corea del Nord, dove morì a soli 35 anni il 23 maggio 1951. Il decreto sull’«offerta della vita» di padre Kapaun è stato autorizzato dal Papa il 24 febbraio, insieme a quello relativo a Salvo D’Acquisto, il carabiniere fucilato dai nazisti a Palidoro in cambio della liberazione di 22 ostaggi. I due militari vittime degli orrori del “secolo breve” vengono così dichiarati venerabili e non resta che il riconoscimento di un miracolo per giungere alle rispettive beatificazioni. Ma se la vicenda di Salvo D’Acquisto è abbastanza nota in Italia, quella altrettanto eroica di Kapaun lo è molto meno. Al neo-venerabile è dedicato un sito web che offre molte notizie sulla sua vita e sulla causa di beatificazione.

Era un giovedì santo quel 20 aprile 1916 in cui Emil Joseph venne alla luce da Elizabeth Hajek ed Enos Kapaun. Era una famiglia di origini boeme come del resto gran parte della popolazione di Pilsen, località del Kansas che prende il nome dall’omonima città (Pilsen o Plzeň) posta a 90 km a ovest di Praga. Non a caso la chiesa edificata poco prima della nascita di Emil venne intitolata al martire Giovanni Nepomuceno, patrono della Boemia. La vita della famiglia Kapaun, allietata otto anni dopo dalla nascita di Eugene (morto nel 2010), scorreva umile e laboriosa. «Una vita semplice è gradita a Dio», avrebbe spiegato in seguito Emil, che aveva scelto San Giuseppe come suo patrono, delineando i tratti della Sacra Famiglia, «caratterizzata dalla pace e dalla santità di Dio. Quella della Sacra Famiglia era una vita di vera felicità. Per essere felici nelle nostre famiglie cristiane dobbiamo praticare la virtù del sacrificio di sé».  Virtù che avrebbe vissuto fino all’amore supremo, ma intanto nulla lasciava presagire che quel ragazzo riservato e volenteroso sarebbe divenuto un giorno eroe nazionale e candidato agli altari.

La vocazione si fece strada tra le scuole delle Adoratrici del Preziosissimo Sangue, le Messe servite al parroco padre Sklenar e le testimonianze dei padri missionari di San Colombano, che Emil leggeva sulla loro rivista. Tuttavia non si unì alla congregazione, ma entrò nel seminario della diocesi di Wichita nel settembre 1930. Dieci anni dopo fu ordinato sacerdote e venne assegnato proprio alla sua parrocchia natale di Pilsen, in aiuto di padre Sklenar. In più gli venne affidato l’incarico di cappellano ausiliare dell’Army Airbase di Herington: un’esperienza che si rivelò una seconda vocazione. Provvidenziale quando, divenuto a sua volta parroco, incontrò la riluttanza dei parrocchiani ad accettare come guida e confidente un ragazzo che conoscevano da quando era bambino! Tornò quindi alla “vocazione militare” nell’U.S. Army Chaplain Corps. Si era in piena Seconda Guerra Mondiale e la strada verso il sacrificio di sé era drammaticamente spianata.

Nel 1945 fu inviato in India e Birmania, dove finalmente incontrò quei missionari di San Colombano che lo avevano attratto in passato. E dove si spese con tutte le forze, fisiche e spirituali, per i suoi uomini. Uno sforzo riconosciuto dai superiori che lo promossero al rango di capitano nel 1946, stesso anno in cui, con il congedo e il ritorno in patria, padre Emil si accingeva a tornare agli studi (per volere del vescovo) e quindi a una “normale” vita parrocchiale. Che durò ben poco, perché il richiamo della vita militare non si era spento. Alla fine del 1948 fu inviato come cappellano presso la Anti-Aircraft Artillery Corps a Fort Bliss, in Texas. Poco più di un anno dopo volava in Giappone, con le forze di pace di stanza in Estremo Oriente, nel gennaio 1950. Poco prima di Natale era tornato a Pilsen, per quella che sarebbe stata l’ultima visita alla sua famiglia.

A segnare le tappe finali della sua breve esistenza è la guerra di Corea. Il reggimento di padre Kapaun si unì alle forze statunitensi giunte in soccorso della Corea del Sud invasa dall’esercito comunista del Nord nel giugno 1950. Si ritrovò immerso nell’orrore del conflitto dove tutto (compreso il clima) contribuiva a spezzare corpi e nervi. E in mezzo all’inferno padre Kapaun celebrava il sacrificio di Cristo, servendosi del cofano della jeep come altare, e rischiava la vita per curare i feriti, amministrare gli ultimi sacramenti ai morenti e seppellire i defunti, chiunque fossero, avversari compresi. Impegno che gli valse la Medaglia della Stella di Bronzo, ma che per lui era nient’altro che il compimento del proprio dovere di prete e di soldato. Un dovere che includeva anche le lettere alle famiglie dei soldati caduti, donando a molte di loro almeno il conforto di sapere che il proprio caro era morto assistito da un sacerdote.

La battaglia decisiva avvenne ai primi di novembre 1950. Padre Kapaun, catturato dai nordcoreani (rafforzati dall’intervento dei cinesi), ebbe una prima possibilità di mettersi in salvo ma volle restare accanto ai feriti. Fatto prigioniero si prodigò per i compagni di sventura, aiutandoli a sostenere la lunga marcia a piedi verso il campo di Pyoktong, per evitare la morte certa che era riservata a quanti si fermavano per via delle ferite o del freddo. Al termine di quel Calvario giunsero al luogo in cui si sarebbe compiuta la sua chiamata a “consumarsi per Dio”. Nella prigionia scoprì un nuovo patrono, il buon ladrone San Disma, cui si affidava nella quotidiana impresa di racimolare cibo e acqua pulita (dalla neve!), lavare i vestiti dei malati e persino i malati stessi quando erano troppo deboli da non poter più provvedere da soli. E restando ben saldo di fronte ai tentativi di indottrinamento comunista regolarmente impartito dai carcerieri. Per questi ultimi costituiva un vero grattacapo: non potevano neanche eliminarlo, temendo una ribellione degli altri prigionieri.

A Pasqua del 1951 riuscì a celebrare la Messa, nonostante il divieto e le sue condizioni fisiche andate via via peggiorando mentre si spendeva per assicurare agli altri ogni possibile cura materiale e spirituale. La polmonite, gli stenti e un coagulo di sangue alla gamba lo condussero in poche settimane al collasso. Prossima tappa: la Casa della Morte, che i carcerieri chiamavano eufemisticamente “ospedale”, decretando il trasferimento di padre Kapaun in quel luogo dove si veniva lasciati morire. Decisione cui gli altri prigionieri si ribellarono, ma fu lui stesso a fermarli. Vollero allora, almeno, portarlo loro stessi per l’ultimo viaggio. Il 23 maggio 1951 padre Emil Joseph Kapaun si spense da solo, letteralmente consumato per Dio: «Non preoccupatevi per me», aveva detto ai compagni di prigionia, «andrò dove ho sempre desiderato andare e una volta lì pregherò per voi».



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