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NUOVO GOVERNO TECNICO

Non illudiamoci. Draghi non farà miracoli ed è frutto di una deriva tecnocratica

Si va verso il Governo Draghi. La prima reazione è di sollievo: è stata evitata all’Italia la sciagura del governo Conte-ter e sancita la fine della funesta alleanza giallo-rossa, il punto più basso della storia repubblicana. Preoccupa, tuttavia, la deriva tecnocratico-dirigistica, oramai sempre più evidente, a tutti i livelli. Come governerà? Con un piglio più centralista e autoritario, riallineando la politica economica italiana a quella dell'Ue, che a sua volta è allineata all'Agenda Onu 2030. Finanza espansiva, debito pubblico e svolta "verde" saranno le caratteristiche essenziali che non risolveranno i nostri problemi.
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Economia 11_02_2021
Mario Draghi

Si va verso il Governo Draghi. La prima reazione è di sollievo: è stata evitata all’Italia la sciagura del governo Conte-ter e sancita la fine della funesta liaison giallo-rossa, il punto più basso della storia repubblicana. Preoccupa, tuttavia, la deriva tecnocratico-dirigistica, oramai sempre più evidente, a tutti i livelli.

I convitati erano già pronti all’assalto alla diligenza dei 209 miliardi di euro del Recovery Fund, in arrivo a partire dai prossimi mesi, che a questo punto sarà almeno mediata e in parte arginata. Chissà quali fantasie sarebbero state partorite da statisti che in piena emergenza sanitaria, sociale ed economica avevano puntato sui banchi a rotelle e sui monopattini elettrici? Non lo sapremo mai, o almeno così speriamo. Anche la “dittatura sanitaria” del Comitato tecnico scientifico subirà, lo auspichiamo tutti, una profonda revisione che sappia contemperare le esigenze sanitarie con quelle economiche, scolastiche e di relazione sociale in genere. Lo “stato di eccezione” in cui il Paese è rimasto come “sospeso” per un anno intero deve dunque avere un termine, subito. Il CoVid-19 non è l’unico problema del Paese, tutt’altro.

Tutto bene, quindi? In realtà no, perché ci troviamo comunque di fronte all’ennesimo caso di sospensione delle regole democratiche, con il varo di un governo “tecnico-politico” di emanazione presidenziale. L’impostazione sarà quindi dirigistica e centralizzata, e questo è un male, anche se si spera per lo meno competente, che di questi tempi non si può dare per scontato. C’è anche da dire che le derive tecnocratiche sono inevitabili quando un Paese soffre da decenni una progressiva involuzione culturale e morale, con una decadenza delle classi dirigenti, non solo tra la classe politica, talmente grave da rendere impossibile una democrazia sostanziale, al di là del rito delle consultazioni elettorali facili preda della demagogia del cacciatore di voti di turno (pensiamo all’exploit del M5S nel meridione d’Italia a fronte della promessa del reddito di cittadinanza). C’è poi da considerare che sul fronte internazionale quel poco dì sovranità che avevamo un tempo ce lo siamo giocato definitivamente da quando è la Banca Centrale Europea a tenere in piedi le finanze pubbliche italiane, proprio a partire da quel fatidico «whatever it takes» pronunciato proprio da Mario Draghi come governatore della BCE nel luglio 2012, nel momento più critico della crisi del debito sovrano dell’Italia e degli altri Paesi “periferici” dell’area euro: Irlanda, Grecia, Portogallo e Spagna. Un interventismo in accelerazione ulteriore post-CoVid.

Beggars can’t be choosers, recita un noto proverbio inglese, ovvero “i mendicanti non posso fare gli schizzinosi”: un detto che riassume bene la situazione in cui il nostro Paese è andato man mano infilandosi, con politiche di spesa pubblica fuori controllo e assistenzialismo clientelare (anche a favore del mondo delle imprese) le cui radici affondano per lo meno negli anni ’60-70 del secolo scorso (per tacere dell’IRI, l’Istituto per la Ricostruzione Industriale, fondato nel 1933, in pieno regime fascista). Il processo ha subìto un’accelerazione post-anni ’80, insieme all’inizio di un tracollo demografico che ha portato il Paese in uno squilibrio insostenibile tra spesa sanitaria e pensionistica crescenti rispetto alla contrazione progressiva delle persone in età lavorativa, con spesa e debito pubblico fuori controllo, schiacciando così le dinamiche della produttività: un mix letale, a fronte del quale si aprirebbero le porte per un collasso “sudamericano” delle finanze pubbliche, in assenza di reti di protezione.

Nel suo intervento agostano al 41° Meeting di Rimini di Comunione e Liberazione, Draghi, distinguendo tra «debito buono» – pro-crescita, a favore delle future generazioni – e «debito cattivo» – risorse elargite a pioggia per fini improduttivi senza favorire lo sviluppo reale – evidenziava il salto di paradigma legato all’assunzione di un debito comune nell’area euro, nella prospettiva esplicitamente evocata di arrivare a un «Ministero del Tesoro comunitario». Il disegno è quindi chiaro: andare verso gli “Stati Uniti d’Europa” e la crisi sanitaria, sociale, economica e finanziaria è sicuramente vista come un acceleratore nella direzione desiderata. La Commissione Europea, insomma, avrà un ruolo crescente, andando ad integrare il ruolo finora svolto dalla Banca Centrale Europea. Dopo l’interventismo monetario degli ultimi anni della BCE, si aggiunge quindi la “gamba fiscale”, sempre nella prospettiva di una politica economica e sociale decisa e guidata dal centro. Il quadro di riferimento rimane quindi di matrice neo-keynesiana, con un ruolo crescente dell’autorità pubblica, con una deminutio degli Stati sovrani a vantaggio degli organismi comunitari. In questa prospettiva “anti-sussidiarietà” si rivedranno probabilmente anche le regole per definire un nuovo quadro giuridico funzionale al trasferimento di competenza dagli Stati al centro, soprattutto in tema di patto di stabilità, di disciplina del mercato unico, della concorrenza e degli aiuti di Stato. Un Grande Reset anche in Europa, insomma.

Come governerà Draghi? Qualche spunto potremmo trarlo dalla recente analisi Reviving and Restructuring the Corporate Sector Post-Covid, redatta dal “Gruppo dei Trenta”, un influente think tank di cui Mario Draghi è Co-Chair e membro dello Steering Committee, dove viene presentata un’approfondita riflessione sullo stato e sull’evoluzione del settore produttivo privato post-epidemia. Alla “fase 1” della gestione emergenziale della crisi – si scrive - deve ora seguire una strategia orientata al futuro dell’economia: perché, come dice il rapporto, «il problema è peggiore di quanto non appaia». Al di là della gestione tattica dell’emergenza, occorre ora una riflessione strategica sugli scenari che si prospettano per l’economia reale, in specie per i business privati di dimensioni piccole e medio-piccole, man mano che termineranno gli aiuti straordinari alle imprese e ai privati, il blocco dei licenziamenti, ecc. In altri termini, dice l’analisi, è giunto il momento di allargare lo sguardo e comprendere che non è più possibile né opportuno proseguire con aiuti a pioggia, indiscriminati, per tenere in piedi con “accanimento terapeutico” aziende strutturalmente insolventi, e non solo in crisi di liquidità come accaduto a tante imprese sane per via dei lockdown.

Nella “visione Draghi” si evidenzia l’errore di un «eccessivo decisionismo diretto da parte dei governi e un coinvolgimento sub-ottimale dell’esperienza del settore privato che potrebbe essere utilizzata per meglio indirizzare gli aiuti», nonché «un focus eccessivo sulla provvista di credito, che rischia di appesantire le imprese di debiti, promuovendo un uso inefficiente delle risorse, che genererebbe problemi nel futuro». Con un monito importante sul «livello di spesa pubblica che si rivelerebbe insostenibile col potenziale perdurare della crisi economica in corso». Si chiarisce quindi che è ora che il settore privato si renda protagonista, senza illudersi di potere beneficiare all’infinito di sussidi pubblici. C’è anche un monito a non porre eccessivi vincoli alle imprese in difficoltà o indirizzare gli aiuti a pochi settori e imprese solo per seguire l’agenda green e la spinta alla digitalizzazione. Anche i salvataggi di quelle imprese che si erano assunte troppi rischi andrebbe evitato, per non continuare ad incentivare l’«azzardo morale». Insomma, pur non parlando dell’Italia è un’analisi che calza a pennello per la realtà del nostro Paese.

Ovviamente il piano italiano dovrà rientrare in quello europeo, che come sappiamo è focalizzato sull’Agenda Onu 2030. Le politiche fiscali espansive andranno ad indebitare ulteriormente l’area, e i debiti, ancorché condivisi, sono una tassazione indiretta a carico di tutti i contribuenti europei. A tale “problema dei mezzi” si aggiunge un “problema di metodo”, cioè una pianificazione centrale e dirigistica di per sé irrispettosa delle logiche sussidiarie, oltre a un “problema di contenuti”, stante la natura ideologica di molti obiettivi delineati, in primis il progetto di de-carbonizzare integralmente le economie europee entro il 2050.

Pur con tutti i caveat sopra riportati, stante la criticità della situazione, i rischi di ulteriori involuzioni e l’assenza di alternative realistiche a breve, come italiani dobbiamo comunque augurarci che il governo Draghi riesca a invertire tendenza e a evitare un collasso finanziario, economico e sociale del Paese. Nei 2 anni che ci separano dalle elezioni politiche del 2023 il centro-destra dovrebbe pensare a costituire un minimo di progettualità e dotarsi di una classe dirigente preparata per sperare poi di raccogliere il testimone e di governare senza farsi impallinare dai vari poteri forti, interni ed esterni, con cui sarà gioco-forza fare i conti, sempre di più. Non basta, infatti, “andare alle elezioni”; anzi, non basta neppure “vincerle”, come l’esperienza ci ha insegnato più volte.