Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
IL CASO

Mario e Speranza, il ministro che aiuta a morire

Speranza ha risposto in meno di 24 ore alla lettera aperta del tetraplegico “Mario”, che invoca il suicidio assistito. Una solerzia che il ministro della Salute non ha avuto con i medici proponenti le cure domiciliari anti-Covid. La “libertà” che Speranza difende è solo quella in linea con l’autoritarismo governativo, come mostrano tutte le restrizioni (infondate) verso i non vaccinati.

Editoriali 14_08_2021

Ci eravamo già occupati del caso qualche mese fa. Dieci anni or sono Mario, nome di fantasia, ha un incidente stradale e finisce tetraplegico in un letto. Allora Mario, che oggi ha 43 anni, chiede all’Area Vasta dell'Asur (Azienda Sanitaria Unica Regionale delle Marche)  di verificare la sussistenza delle condizioni per accedere al suicidio assistito indicate dalla sentenza 242/2019 della Corte costituzionale (clicca qui per un approfondimento). Questa sentenza permette in buona sostanza di accedere al suicidio assistito fintantoché non ci sarà una legge ad hoc del Parlamento, legge che, tra l’altro, è già al vaglio della Camera (ne abbiamo parlato qui).

Quali sono le condizioni per chiedere legittimamente di morire tramite la pratica del suicidio assistito? Citiamo la sentenza della Consulta: la Corte “esclude la punibilità di chi, con le modalità previste dagli artt. 1 e 2 della legge n. 219 del 2017 [articoli che riguardano il consenso informato e le terapie del dolore, nda], agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente”.

L’Asur però nega il consenso. Allora Mario, appoggiato dall’immancabile associazione Luca Coscioni che vuole sfruttare il caso per avere una legge sul suicidio assistito il prima possibile, propone un ricorso di urgenza affinché l’Asl verifichi le condizioni previste dalla Consulta. Il ricorso viene respinto: il tribunale argomenta che dopo la sentenza della Consulta è vero che il personale sanitario non è più punibile se aiuta a morire qualcuno, ma questo non vuol dire che lo stesso personale sanitario abbia il dovere di far morire qualcuno se questo qualcuno lo richiede. Dunque, a rovescio, non esiste il diritto al suicidio assistito. Purtroppo il parere della Consulta era diametralmente differente: “La punizione delle condotte di aiuto al suicidio che non abbiano inciso sul percorso deliberativo della vittima risulterebbe ingiustificata e lesiva degli artt. 2, 13, primo comma, e 117 Cost. In tale ipotesi, infatti, la condotta dell’agevolatore rappresenterebbe lo strumento per la realizzazione di quanto deciso da un soggetto che esercita una libertà costituzionale” (e più sopra i giudici identificano tale libertà come diritto a chiedere la morte). I Radicali però non mollano: tramite un’udienza di reclamo del maggio scorso hanno la meglio. Il giudice ordina quanto segue: l’Asur dovrà verificare i requisiti per mezzo del parere di un Comitato etico.

Passano le settimane e nulla succede e quindi Mario, l’11 agosto scorso, scrive una lettera aperta, pubblicata su La Stampa, all’Asur, alle istituzioni e al ministro Roberto Speranza. Le quattro condizioni per accedere al suicidio assistito sono presenti nel caso di Mario. Tra le quattro mettiamo in evidenza i “sostentamenti vitali”, espressione di così ampia portata che è comprensiva di moltissimi interventi sanitari (dunque, sostentamenti vitali non sono solo ventilazione, idratazione e nutrizione assistita). A dircelo è lo stesso Mario nella sua lettera: “Sono tenuto in vita da sostegni vitali […]  visto che ho il catetere da dieci anni, vado di corpo con manovre invasive e dolorose e sono assistito 24 ore su 24, dipendo pure da un pacemaker”. In effetti, ognuno di questi interventi se non eseguito porterebbe alla morte e lo stesso pacemaker può essere tranquillamente qualificato come “sostegno vitale”.

Pubblicata la lettera l’11 agosto, il giorno dopo - sì, solo il giorno dopo - il ministro Speranza risponde con una propria lettera aperta, assai lunga, sempre su La Stampa, evidenziando una solerzia che non ebbe, ad esempio, nei confronti di quei medici che tempo fa gli chiedevano di aprire alle cure domiciliari anti-Covid. Citiamo alcuni passaggi della lettera: “Sono personalmente convinto da tempo della necessità e dell’urgenza di un intervento legislativo in materia. […] Una persona […] ha il diritto di chiedere a una struttura pubblica del servizio sanitario l’assistenza al suicidio medicalmente assistito. […] La sentenza della Consulta non può essere ignorata. […] E sulla base di questa convinzione che il Ministero della Salute ha avviato già nei mesi scorsi un confronto con le Regioni che ha l’obiettivo di superare due problemi che rischiano di ostacolare l’attuazione della sentenza della Consulta. […] Il primo riguarda una ricognizione regione per regione sulla natura e sulla composizione dei comitati etici territoriali, per verificare la loro presenza e la loro adeguatezza a svolgere il delicato ruolo che la Consulta ha affidato loro. […] Il secondo riguarda l’opportunità di un’intesa fra Governo e Regioni, che possa consentire a queste ultime di fornire indicazioni chiare e univoche alle rispettive aziende sanitarie locali sulla procedura di applicazione del dispositivo della Consulta”.

Molti potrebbero essere i commenti a questa lettera, ma qui ne vogliamo evidenziare uno che non tocca tanto la vicenda del povero Mario, bensì le “vicende” esistenziali di tutti noi. Il commento si potrebbe così articolare in forma di domanda: caro Ministro, uno vuole morire e Lei lo aiuta, e invece uno vuole andare al ristorante senza essere vaccinato e Lei glielo impedisce? O, per dirla in altri termini: Lei ci tiene alla morte di Mario così tanto da agevolarlo e invece, chissà perché, ci tiene alla vita di noi tutti così tanto da obbligarci a vaccinare? E se volessimo anche noi, come Mario, morire per mano del Covid? Perché non permettercelo?

Si risponderà: la scelta di Mario non espone altri a rischi mortali, la scelta di non vaccinarsi sì. Pur volendo tralasciare la questione della pericolosità dei vaccini e la reale letalità di questo virus - questioni che starebbero a monte di molte altre - l’obiezione appena indicata sarebbe vera se il vaccino impedisse la trasmissibilità del virus. Ma le cose non stanno così (e il beneficio di una seppur minore trasmissibilità data dal vaccino è superato dai rischi di questo), come più volte da queste colonne autorevoli esperti hanno argomentato. Inoltre il rischio mortale quasi si azzera se consideriamo che coloro che non vogliono vaccinarsi non impediscono agli altri di farlo o di curarsi con le terapie domiciliari. Insomma il non vaccinato non attenta alla vita degli altri che, nella maggior parte dei casi, hanno comunque a disposizione gli strumenti necessari per non morire di Covid.

I motivi di questa disparità di trattamento tra Mario e chi non vuole vaccinarsi allora sono altri. Escludiamo il principio di autonomia ossia la libertà personale. Se il ministro vuole tutelare la libertà di Mario tanto da permettergli di suicidarsi, a maggior ragione dovrebbe tutelare le nostre libertà che chiedono assai meno: salire su un treno, partecipare ad uno spettacolo teatrale o ad una conferenza, far visita ad un parente in ospedale, andare al ristorante o in palestra. L’apparente schizofrenia si spiega con il principio di autoritarismo. Nel caso di Mario, dato che questi sposa un principio avallato anche dall’autorità governativa, allora deve essere aiutato nei suoi propositi eutanasici, nel caso dei vaccini invece coloro che non sposano gli orientamenti dello Stato, il quale esige che tutti si vaccinino, devono essere messi nelle condizioni di piegarsi ai diktat governativi. Dunque non è rilevante la libertà in quanto tale, ma verso quale scelta si orienta la libertà. Se tale scelta è benedetta da chi siede nella stanza dei bottoni deve essere agevolata, altrimenti ostacolata. Nel caso di Mario, dunque, questi si può anche non curare, nel secondo caso invece ci dobbiamo curare tutti a forza.

Inoltre la pandemia ha offerto una sponda straordinaria per favorire una deriva tipica degli stati autoritari: il controllo sociale. Tutti i governi di area levantina sono statalisti: lo Stato è al centro della vita sociale e dunque lo Stato deve controllare tutto e tutti. Da qui l’elefantiasi della macchina burocratica che nasce come strumento per sorvegliare i cittadini. Il Green pass è l’ultimo di questi ritrovati di controllo capillare dei consociati. Va da sé che l’antitesi del controllo sociale è la libertà individuale. Ecco scattare l’obbligo vaccinale, ma non l’obbligo a vivere per Mario proprio perché il nostro ordinamento è filo-eutanasico.

Quindi possiamo concludere che questo apparente strabismo mette bene in evidenza che autoritarismo e liberalismo sono fratelli. Promuovere solo quelle libertà individuali benedette da chi ha il potere. Le altre devono essere vietate.