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Vogliono il suicidio assistito "naturale" come un infarto

Approvato dalle Commissioni Giustizia e Affari sociali il testo base della proposta di legge sul suicidio assistito che recepisce in toto le condizioni indicate dalla Consulta. Nei fatti renderà l'aiuto al suicidio come una mera formalità. Il ricorso al sostegno psicologico diventa eventuale, si allarga la platea degli aspiranti suicidi anche ai cardiopatici e ai malati oncologici perché estende i trattamenti di sostegno vitale a farmaci e terapie. E l'articolo 5, addirittura, classifica il decesso non come suicidio, bensì come morte incorsa per cause naturali. Come un infarto. Con queste premesse siamo a un passo dall'approvazione dell'iniezione letale. 

Vita e bioetica 09_07_2021

Il 6 luglio scorso è stato approvato il testo base della proposta di legge dal titolo «Disposizioni in materia di morte volontaria medicalmente assistita» da parte delle Commissioni Giustizia e Affari sociali della Camera. Il testo unifica differenti proposte: quella di iniziativa popolare dei Radicali e quelle di altri parlamentari (Zan, Pagano, Cecconi, Rostan, Sarli, Sportiello, Rizzino).

La legge 219/17 aveva già indicato alcune modalità eutanasiche che si possono praticare in corsia: non attivazione o sospensione dei mezzi di sostentamento vitale (idratazione, nutrizione assistite e implicitamente anche ventilazione assistita) e di qualsiasi terapia salvavita; possibilità di usare la sedazione continua profonda per finalità eutanasiche.

Rimanevano fuori dai mezzi per uccidere la cosiddetta iniezione letale fatta dal medico e l’aiuto al suicidio. In merito al suicidio assistito la Corte Costituzionale, in due occasioni (ordinanza 207/2018 e sentenza 242/2019), aveva sollecitato il Parlamento a legiferare indicando altresì le condizioni per accedere al suicidio assistito legale (clicca qui per un approfondimento).

Le condizioni indicate dalla Consulta sono le seguenti: «la Corte «esclude la punibilità di chi, con le modalità previste dagli artt. 1 e 2 della legge n. 219 del 2017 [articoli che riguardano il consenso informato e le terapie del dolore, nda] agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente».

Il Testo Unico presentato alla Camera ha fatto il copia incolla di queste condizioni.

Analizziamole una ad una. Ex art. 3 la persona che fa richiesta di morire deve, innanzitutto, essere maggiore di età e «capace di prendere decisioni libere e consapevoli». Per ora si esclude, seppur non esplicitamente, che possano decidere per l’incapace e il minore i rispettivi rappresentanti legali, ma in futuro le cose potrebbero andare diversamente. Infatti il minore o l’incapace attaccato ad esempio ad un respiratore già oggi possono accedere all’eutanasia per volere dei loro rappresentati legali. Ciò apparirà presto discriminatorio nei confronti di tutti gli altri pazienti minori e incapaci che potrebbero trovare la morte solo tramite il suicidio assistito e grazie ai loro rappresentati legali.

In secondo luogo la verifica dell’esistenza della capacità di prendere decisioni libere ricade, ex art. 5, sul «medico che ha ricevuto dal paziente la richiesta di morte volontaria medicalmente assistita», il quale solo eventualmente e a sua discrezione può avvalersi dell’aiuto di uno psicologo. Vero è che tale verifica, inserita in una relazione, dovrà passare il vaglio di un Comitato etico territoriale, ma quasi certamente il Comitato, a parte qualche caso eclatante, prenderà per buone le valutazioni del medico. In secondo luogo quali sono i parametri oggettivi per stabilire se una persona è capace di intendere e volere? Non sono indicati. Se non saranno indicati nemmeno nelle future linee guida si correrà il rischio che uno stesso paziente potrà essere giudicato incapace da un medico e capace da un altro, dato che il metro di giudizio sarà soggettivo.

Proseguiamo con le condizioni legittimanti l’aiuto al suicidio: la persona deve essere «affetta da sofferenze fisiche o psicologiche ritenute intollerabili». Il giudizio è meramente soggettivo, spettando al paziente stesso, e riguarda sofferenze non solo fisiche ma anche psicologiche. Dunque, in punta di diritto, qualsiasi sofferenza fisica o soprattutto morale potrebbe essere giudicata «intollerabile». Ulteriore requisito: la persona deve «essere affetta da una patologia irreversibile o a prognosi infausta oppure portatrice di una condizione clinica irreversibile». Dunque potranno morire grazie all’aiuto del medico non solo i pazienti in fase terminale, ma anche i malati cronici (es. pazienti in dialisi) e volendo, come spiegheremo meglio tra breve, anche i pazienti depressi.

Terza condizione: la persona aspirante suicida «deve essere tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale». Questa espressione si può riferire non solo ai mezzi di sostentamento vitale quali nutrizione, idratazione e ventilazione assistita, ma anche a tutte quelle terapie necessarie per alcuni per vivere come la chemioterapia, la dialisi, gli antibiotici, i farmaci per il cuore e la pressione ed anche gli antidepressivi. In merito a questi ultimi, nulla esclude di considerarli come «trattamenti di sostegno vitale» qualora, venendo meno la loro somministrazione, il depresso possa essere tentato di togliersi la vita (anticipando così per paradosso nei fatti ciò che avrebbe poi chiesto grazie alla legge). In buona sostanza, se leggiamo in modo congiunto il secondo e il terzo requisito, la platea di aspiranti sucidi non si restringe, bensì si amplia in modo indefinito potendo comprendere in sé dal paziente oncologico a quello cardiopatico, dal depresso all’anziano stanco di vivere e che campa con un cocktail di medicinali che tiene sul comodino.

Quarta condizione: la persona deve «essere assistita dalla rete di cure palliative o abbia espressamente rifiutato tale percorso assistenziale».

Due riflessioni. La prima: questa indicazione diverrà immediatamente evanescente nei fatti perché di fronte ad una persona che vorrà morire si darà immediatamente seguito alla sua richiesta senza andare troppo per il sottile e le altre soluzioni per stornarla dal suo proposito suicida rimarranno sulla carta. Così come è accaduto e accade per la legge 194, laddove indica soluzioni alternative all’aborto.

Seconda riflessione: chi vuole morire soffre nella psiche prima che nel fisico. Per questa ragione appare curioso che si faccia riferimento ad una proposta di cure palliative, ma non ad una proposta di sostegno psicologico che dissuada la persona da intenti suicidi e disinneschi così la richiesta di voler morire.

Come già accennato, il medico che riceve la richiesta eutanasica – qualsiasi medico: dal proprio dermatologo al medico amico di famiglia – deve verificare l’esistenza di queste condizioni. Successivamente scriverà un report che inoltrerà al Comitato per l’etica nella clinica territorialmente competente (la legge prevede l’istituzione di questi comitati presso tutte le Aziende Sanitarie Territoriali), il quale esaminerà il contenuto della relazione del medico. Siamo facili profeti nel prevedere che il passaggio presso questi comitati sarà il più delle volte una mera formalità.

L’art 7 dichiara che non sarà punibile per omicidio del consenziente, né per omissione di soccorso il medico, il personale sanitario e amministrativo e chiunque abbia agevolato la morte del paziente (quindi anche i familiari, amici, conoscenti, etc.) se le condizioni previste dalla legge saranno rispettate. Come per l’aborto, anche nel caso dell’eutanasia il reato scatta se non si è rispettata una certa procedura: il reato acquista natura burocratica. Di contro se il protocollo eutanasico è stato rispettato non c’è reato, anzi non c’è nemmeno tecnicamente suicidio, bensì si tratterebbe di un atto terapeutico volto alla morte del paziente, principio prelevato dalla legge 219/17 già ricordata. Ma a questo punto sorge una domanda: come classificare dal punto di vista legale la morte di questi pazienti? Non suicidio, bensì un decesso incorso per cause naturali. Sì, è proprio questo che si può leggere nel Testo unico all’art. 5: «Il decesso a seguito di morte volontaria medicalmente assistita è equiparato al decesso per cause naturali a tutti gli effetti di legge». Il suicidio con assistenza clinica diventa come un infarto con esito fatale.

Poi il comma 2 dell’art. 7, in ossequio all’art. 2 comma 2 cp, così disciplina: non solo non saranno puniti tutti i soggetti prima menzionati quando la legge verrà varata, ma non devono scontare nessuna pena nemmeno tutti quelli che in passato, prima dell’approvazione di questa norma, hanno aiutato altri a morire sempre che il decesso fosse avvenuto nel rispetto delle condizioni previste dalla presente legge.

In conclusione questo Testo unico apre ancor più i battenti all’eutanasia nel nostro Paese e prelude alla legittimazione dell’ultima modalità eutanasica non ancora permessa in Italia: l’iniezione letale. Ma è solo questione di tempo.