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STRATEGIA RADICALE

Il caso del tetraplegico e il fine del suicidio on demand

Un 42enne delle Marche è tetraplegico da dieci anni. L’Asl si rifiuta di agevolare il suicidio, verosimilmente perché manca la precondizione dei trattamenti di sostegno vitale. Il paziente ricorre tramite l’Associazione Coscioni, che vuole sfruttare il caso mediatico per ottenere una legge ancora più permissiva rispetto a quella sulle Dat e alla sentenza 242/2019 della Consulta.

Vita e bioetica 25_02_2021

Mario (nome di fantasia) è un quarantaduenne delle Marche che, a seguito di un incidente stradale, da dieci anni è tetraplegico. Ora, tramite la sempre puntuale Associazione Luca Coscioni, chiede il suicidio assistito.

L’aiuto al suicidio è stato parzialmente depenalizzato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 242 del 2019 (clicca qui per un approfondimento). La sentenza, fintantoché non interverrà il Parlamento, ha sostanzialmente valore di legge perché così ha deciso la Consulta stessa, la quale, come è riportato nella sentenza medesima, non si è limitata «a un annullamento “secco” della norma incostituzionale, ma [ha ricavato] dalle coordinate del sistema vigente i criteri di riempimento costituzionalmente necessari, ancorché non a contenuto costituzionalmente vincolato, fin tanto che sulla materia non intervenga il Parlamento». In breve, questa sentenza disciplina la materia del suicidio assistito anche per tutti i casi futuri (così come era già capitato in tema di aborto con la sentenza n. 27/75 e in materia di fecondazione artificiale con le sentenze n. 162/2014 n. 96 e n. 229 del 2015).

Affinché praticare il suicidio assistito sia legittimo, secondo la Consulta, occorre rispettare alcune condizioni. Citiamo nuovamente la sentenza: la Corte «esclude la punibilità di chi, con le modalità previste dagli artt. 1 e 2 della legge n. 219 del 2017 [articoli che riguardano il consenso informato e le terapie del dolore, nda] agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente».

Mario - in ottemperanza alla suddetta sentenza, che prevede il necessario benestare di una struttura pubblica del Servizio Sanitario Nazionale - si era rivolto all’Area Vasta dell'Asur (Azienda Sanitaria Unica Regionale) per chiedere il suicidio assistito, ma l’Asur aveva respinto la domanda. Per quale motivo? Molto probabilmente perché manca una delle condizioni legittimanti per soddisfare la richiesta del suicidio assistito: Mario non è tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale. A conferma di questa ipotesi citiamo un passaggio di una lettera del 20 febbraio scorso che Mario ha indirizzato al Consiglio generale dell’Associazione Coscioni: «La risposta ricevuta [dall’Asur] è stata negativa, nonostante io sia tenuto in vita da trattamenti sanitari».

Ma in realtà pare proprio che le cose stiano in modo differente. È lo stesso interessato che, forse involontariamente, ce lo rivela. Citiamo nuovamente la missiva: «Non riesco a muovere nessuna parte del mio corpo. Per lavarmi i denti, farmi la barba, mangiare, bere, lavarmi, vestirmi, ho bisogno di qualcun altro». Dunque, Mario non è sottoposto né a ventilazione assistita, né a idratazione e nutrizione assistita. Se lo fosse stato, senza scomodare la sentenza della Consulta, avrebbe potuto chiedere di applicare al suo caso la legge 219 che permette l’eutanasia tramite l’interruzione degli appena menzionati presidi vitali. La legittimazione del suicidio assistito, invece, è servita per far morire tutte quelle persone che, ci si passi l’espressione, non erano attaccate a delle macchine per vivere. Ad esempio i pazienti oncologici che sono sottoposti a chemioterapia, la quale può rientrare di diritto nell’espressione «trattamenti di sostegno vitale». Quindi probabilmente l’Asur, sebbene l’Associazione Coscioni denunci che la stessa non ha verificato le condizioni del paziente, si è resa conto che Mario è sì un disabile gravissimo, ma la sua sopravvivenza non dipende da nessun trattamento di sostegno vitale.

Il ricorso contro l’Asl, quasi sicuramente, sarà accettato. Infatti - e non suggeriamo nulla a cui l’Associazione Coscioni non ha già pensato - sarà comunque facile individuare una terapia, a cui è sottoposto Mario, da qualificarsi come «salvavita». Di certo, ad esempio, Mario è sottoposto a terapie farmacologiche per contrastare varie infezioni. Lasciar libero corso alle infezioni può essere letale. Basterà quindi far riferimento a tali terapie per trovare l’escamotage al fine di chiedere l’aiuto al suicidio.

Qualcuno però potrebbe obiettare: Mario sarebbe potuto andare in Svizzera, come DJ Fabo, al fine di trovare la morte. Perché allora questi e l’Associazione Luca Coscioni vogliono far ricorso contro la decisione dell’Asur?

Un motivo è stato esplicitato, nella già citata lettera, dallo stesso diretto interessato: «Spero che il tribunale intervenga in mio aiuto, ma chiedo in ogni caso al Parlamento di discutere la legge sull’eutanasia, per poter decidere senza dover andare per tribunali». Come si ricorderà, la Consulta chiese, invano, al Parlamento di legiferare sul suicidio assistito. I Radicali non sono paghi di avere avuto una decisione della Corte costituzionale che ha legittimato l’aiuto al suicidio, ma vogliono anche una legge ad hoc (o un’espansione della attuale legge 219/17). Iniziare un’ennesima vertenza giudiziaria è occasione propizia per far pressing mediatico sul Parlamento.

Vi è un secondo motivo per cui i Radicali vogliono creare un caso giudiziario: l’eutanasia tramite il suicidio assistito deve diventare on demand. Le persone non devono essere costrette, come dovrà fare Mario, a trovare strani appigli per essere aiutate ad uccidersi, non devono essere obbligate ad inventarsi percorsi tortuosi per arrivare a togliersi la vita, ad escogitare fantasiose soluzioni - come quella che vede i farmaci contro le infezioni come terapie salvavita - per farla finita. Il suicidio assistito deve essere sostanzialmente sempre concesso ogni volta che viene richiesto. Vincere la causa contro l’Asur - e la vinceranno - sarà un monito per altre aziende sanitarie. Inutile opporsi interpretando in senso restrittivo la sentenza della Consulta: se un paziente chiede di morire, tu ospedale e tu Asl dovete sempre acconsentire (così come avviene per la donna che vuole abortire).

In sintesi, i Radicali probabilmente vogliono approfittare della futura vertenza giuridica affinché la locuzione «trattamenti di sostegno vitale» sia interpretata in senso maggiormente estensivo.