Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
tra due fuochi

Padre Maccalli: Niger, Mali e Burkina Faso in mano ai jihadisti

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Tre Paesi schiacciati fra gli attentati e la spietata politica dei governi che espongono i civili alle rappresaglie dei terroristi. A spiegarlo è il missionario rapito sei anni fa. 

Esteri 11_10_2024
(AP Photo/Fatahoulaye Hassane Midou) Associated Press/LaPresse Only Italy and Spain

Il 17 settembre scorso padre Pier Luigi Maccalli, missionario della Società delle Missioni Africane (SMA), è tornato in Niger, a sei anni esatti dal suo rapimento, avvenuto nella notte tra il 17 e il 18 settembre del 2018, e dopo un lungo periodo trascorso in Italia. A prelevarlo nella sua parrocchia, Bomoanga, era stato un gruppo jihadista, un dei tanti affiliati ad al Qaeda e all’Isis che infestano il Maghreb e ormai anche diversi Paesi dell’Africa sub sahariana. Per oltre due anni era stato tenuto prigioniero, “venduto” da un gruppo all’altro, finché l’8 ottobre 2020 era stato liberato nel vicino Mali. 

Ad accoglierlo a Bomoanga padre Maccalli ha trovato i suoi ex parrocchiani, padre Mauro Armanino, anch’egli missionario SMA, e il vescovo della diocesi della capitale Niamey, Djalwana Laurent Lompo, che lo ha ospitato nel vescovado. Sono stati momenti di grande gioia e commozione, ma anche di amarezza. Padre Maccalli ha infatti dovuto constatare quanto sono peggiorate le condizioni di vita dei cristiani che ancora vivono nella regione: molti sfollati per sottrarsi alla furia jihadista, disperatamente privi di risorse e di prospettive, e quasi tutti afflitti dall’indigenza, dall’insicurezza e dalla preoccupazione per il futuro e, come il missionario ha spiegato in una intervista all’agenzia di stampa Fides, presi tra due fuochi: gli attacchi dei jihadisti, che uccidono, distruggono, rubano, ma anche la violenza dei militari che diffidano di tutti e si accaniscono a loro volta sui civili se li sospettano di collaborare con i terroristi. Triste è stato anche constatare la scomparsa della grande croce di ferro che da una collina dominava la sua parrocchia, visibile da lontano. Era stata eretta nel 1995, l’anno di fondazione della missione SMA. I jihadisti l’hanno divelta nel 2020.

Adesso un nuovo incarico porta padre Maccalli nel vicino Benin dove avrà il compito di preparare dei giovani missionari SMA da mandare nelle periferie del mondo come segno di speranza e artigiani di pace. Quella in Niger è stata solo una breve visita. «Ci tenevo a ritornare in Niger – ha spiegato – per dare speranza con la mia presenza e la mia storia di liberazione a una popolazione che sta tuttora soffrendo. Un padre non abbandona i suoi, specie in tempo di insicurezza». Ma per lui restare in Niger potrebbe essere molto pericoloso. Di solito quando i jihadisti liberano un religioso, un missionario, pretendono che prometta di non ritornare nel Paese in cui l’hanno rapito. Aver infranto la promessa è costato la vita alla missionaria Beatrice Stockli, una cristiana evangelica. Nel 2012 era stata rapita nel nord del Mali dove svolgeva la sua attività e liberata dopo una breve prigionia a condizione che lasciasse il Paese. Lei invece era ritornata. Nel 2016 i jihadisti l’hanno rapita di nuovo e questa volta l’hanno uccisa. Consapevole dei rischi, padre Maccalli ha ponderato la situazione e ha preso le necessarie misure di sicurezza, come ha tenuto ad assicurare all’ambasciatore italiano al quale ha fatto una visita di cortesia.

Il Niger e i vicini Mali e Burkina Faso da alcuni anni sono considerati tra i Paesi africani in cui la minaccia jihadista è più forte per il numero di gruppi presenti, per la notevole estensione dei territori in cui sono riusciti a insediare le loro basi operative, per la frequenza e la letalità degli attacchi e degli attentati messi a segno contro basi militari e insediamenti civili, per l’ampiezza del raggio d’azione entro cui riescono a colpire. L’insicurezza crescente è stata uno dei motivi per cui i loro abitanti hanno festeggiato i colpi di stato militari con cui due volte in Mali, nel 2020 e nel 2021, due in Burkina Faso, entrambe nel 2020, e infine in Niger nel 2023 sono stati rovesciati i governi democraticamente eletti. La speranza era che i militari fossero meno corrotti dei politici e più capaci di ristabilire condizioni di vita tollerabili sia in termini di sicurezza che di ordine pubblico. I leader militari dei tre Paesi hanno seguito linee d’azione simili: accusare i governi occidentali di non aver saputo sconfiggere il jihad, ordinare a truppe e in alcuni casi rappresentanze diplomatiche occidentali di lasciare il Paese, affermare orgogliosamente di essere in grado di fare da soli potendo comunque contare sul sostegno militare della Russia, direttamente o tramite i mercenari del gruppo Wagner.

Ma, se le truppe occidentali non hanno fatto abbastanza per combattere i jihadisti, quelle locali, seppure sostenute dalle forniture di armi e dalla presenza dei militari russi, si sono dimostrate ancora meno efficaci. La strage più recente in Niger è stata di militari, 15 uccisi, 16 feriti e altri dispersi. Risale alla fine di luglio. Prima e dopo si contano decine di incursioni in villaggi e insediamenti. In Burkina Faso i gruppi jihadisti hanno intensificato notevolmente le loro attività e il loro principale bersaglio sono i civili. Dall’inizio del 2024 ne hanno uccisi centinaia. Hanno colpito soprattutto dei villaggi lasciati incustoditi, alla loro mercé, ma anche un campo profughi in teoria presidiato dall’esercito e una chiesa. Alla fine di agosto il Jnim, un gruppo affiliato ad al Qaeda, ha messo a segno uno dei più gravi attacchi mai verificati nel Paese. Un commando ha aperto il fuoco sugli abitanti di una cittadina, Barsalogho, che costretti dall’esercito stavano scavando delle trincee per rendere difficile l’accesso al centro abitato. Si stima che i morti siano stati circa 600. In Mali, oltre ai jihadisti, il governo deve fare i conti con i separatisti Tuareg prima tenuti a bada dalle truppe francesi e di altri Paesi europei e dalla Minusma, una missione di peacekeeping delle Nazioni Unite. Il mese scorso il Jinm è riuscito ad attaccare persino la scuola di gendarmeria e l’aeroporto internazionale della capitale Bamako, nel quale per qualche ora è stata issata la bandiera di al Qaeda. A fine luglio invece in una imboscata tesa dai Tuareg sono morti almeno 84 mercenari Wagner e 47 soldati maliani.

Come padre Maccalli ha spiegato, gli abitanti dei tre Paesi inoltre sono tra l’incudine e il martello: vittime di attacchi e attentati sempre più mortali e al tempo stesso della spietata politica di governi che, oltre a non difendere i civili, li costringono a ritornare nei territori dai quali erano fuggiti, li abbandonano in campi profughi privi di assistenza e di difesa, infieriscono su di loro per dissuaderli da connivenze con jihadisti e separatisti e li espongono alle rappresaglie jihadiste. 



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