La relazione sulla 194 conferma: lo Stato predilige la morte
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Aumentano gli aborti volontari (soprattutto farmacologici), il numero dei non obiettori e la “contraccezione d’emergenza”. E i punti Ivg sono, in proporzione agli interventi, oltre 5 volte in più dei punti nascita. Segni di un Paese che ha abbracciato la cultura di morte.
Nello Stato italiano c’è una sempre più salda vocazione alla morte. La conferma arriva dall’ultima Relazione del ministro della salute sull’attuazione della Legge 194/1978, pubblicata giovedì 5 dicembre, con i dati del 2022. Diversi i punti degni di nota, ma per ragioni di sintesi ci limiteremo a sottolinearne cinque.
Innanzitutto, va detto che nel 2022 – com’era già emerso con i dati, ancora provvisori, pubblicati a fine ottobre 2024 dall’Osservatorio permanente sull’aborto (Opa) – il numero di aborti volontari ufficiali è cresciuto rispetto all’anno precedente: un fatto che non accadeva dal 1983. Nello specifico, si è passati da 63.653 aborti (2021) a 65.661 (2022), con un aumento del 3,2%. Il tasso di abortività, indicante il numero di aborti ogni mille donne di 15-49 anni residenti in Italia e considerato l’indicatore più accurato in materia, è cresciuto a quota 5,6 per mille (era a 5,3 nel 2021). La relazione nota che si tratta tuttavia di un’eccezione nel solco di un lungo periodo di decremento degli aborti perché, rispetto al 1983 (quando toccava quota 16,9), il tasso di abortività è diminuito di due terzi (-66,9%) ed è oggi uno dei più bassi tra i Paesi avanzati. Vero, ma il decremento, nel lungo periodo, degli aborti ufficiali – aggettivo da tenere sempre a mente – si spiega con una serie di cause, come ad esempio: il declino della popolazione femminile in età fertile, l’invecchiamento della popolazione, il calo delle nascite, gli aborti fai-da-te attraverso le pillole abortive (Ru486 e prostaglandine) acquistate clandestinamente, i cripto-aborti legati alla cosiddetta “contraccezione d’emergenza”.
Ora, proprio in quest’ultimo campo – ed è il secondo punto che sottolineiamo – si è registrato l’ennesimo aumento: nel 2022, infatti, sono state vendute 303.407 confezioni di Norlevo (+6,7% di vendite rispetto all’anno precedente); ancora più marcato l’incremento per ellaOne, con 444.730 confezioni vendute (+27,7%). Un incremento favorito dalla determina dell’Aifa dell’8 ottobre 2020, che ha eliminato per le minorenni l’obbligo di prescrizione dell’ulipristal acetato (già eliminato cinque anni prima per le maggiorenni).
Ma la liberalizzazione dei “contraccettivi d’emergenza” e il loro nome stesso sono un inganno perché il loro meccanismo d’azione non è unicamente contraccettivo. Come ricordava l’Opa a ottobre, «la gran parte delle donne che vi ricorrono, assumendo dopo un rapporto non protetto le cosiddette pillole post-coitali “del giorno dopo” (Norlevo, Escapelle) o “dei cinque giorni dopo” (ellaOne, Evante), sono convinte che si tratti di un farmaco che consente di evitare una gravidanza indesiderata bloccando o ritardando l’ovulazione. Diversi studi dimostrano viceversa che la CE [contraccezione d’emergenza, ndr] ha talvolta una azione anti ovulatoria, impedisce cioè il concepimento, ma anche che, in presenza di un embrione già concepito, ha sempre una azione antinidatoria, rendendo l’endometrio inospitale al suo annidamento». Di qui il cripto-aborto: l’embrione muore senza che nessuno – né la madre né tantomeno le statistiche ufficiali – se ne accorga.
Terzo punto: per la prima volta, gli aborti farmacologici superano quelli chirurgici, contando nel complesso per il 52% del totale. Anche questa è una conseguenza della progressiva liberalizzazione, culminata nelle scellerate linee guida emanate nell’agosto 2020 per volontà dell’allora ministro Roberto Speranza. Si dà il caso che lo storico sorpasso è segno di un’ulteriore banalizzazione dell’aborto, che è sempre più confinato tra le mura domestiche (vedi il venir meno del vincolo del ricovero ordinario), a dispetto di tanti slogan sulla “sicurezza” delle donne che vennero usati come pretesto ai tempi della legalizzazione. Ora che la legge c’è, anche la salute delle donne, dopo quella dei bambini non nati, può cedere il passo: è noto infatti che l’aborto farmacologico è più rischioso per le stesse madri, con una serie di complicazioni ben documentate in letteratura (gravi emorragie, infezioni, aborti incompleti, ecc.) insieme a un rischio maggiore di morte.
Altro aspetto, in negativo, da sottolineare: tra il 2014 e il 2022 i ginecologi non obiettori sono aumentati di oltre trecento unità (passando da 1.408 a 1.711), con un incremento relativo del 21,5%. Vista la parallela decrescita, nel lungo periodo, del numero di aborti ufficiali, il carico di lavoro per i non obiettori è ancora più leggero che in passato. Come si legge nella relazione, «considerando 44 settimane lavorative all’anno, il numero di IVG per ogni ginecologo non obiettore è pari a 0,9 IVG a settimana a livello nazionale, con un minimo in Valle d’Aosta, nella P.A. di Trento, in Friuli-Venezia Giulia e in Sardegna pari a 0,4 IVG medie settimanali, e con un massimo in Molise, con una media di 6,2 IVG medie settimanali». Molto bassa anche la mobilità tra le regioni e le province (il 92,9% e l’86,9% degli aborti è praticato, rispettivamente, nelle regioni e province di residenza), con «proporzioni analoghe a quelle di altre prestazioni sanitarie», afferma la relazione. Dati, dunque, che smentiscono ancora una volta la propaganda abortista contro l’obiezione di coscienza, dal momento che in Italia – ahinoi – è molto facile abortire, nonostante i ginecologi siano tuttora per la maggior parte obiettori.
Andiamo al quinto punto, che è un po’ il climax di quanto detto, la fotografia della decadenza del nostro Paese. Leggiamo ancora dal documento del Ministero: «A livello nazionale, ogni 100.000 donne in età fertile, si contano 3,4 punti nascita e 2,9 punti IVG, con un rapporto di 1,2:1, garantendo l’adeguata copertura della rete di offerta. Considerando inoltre che nel 2022 si contano complessivamente 395 punti nascita e 343 punti IVG, e che i nati sono stati 393.333 (fonte ISTAT) e le IVG 65.661, ne consegue che per ogni 1.000 nascite si conta 1 punto nascita, mentre per ogni 1.000 IVG ci sono 5,2 punti IVG. In proporzione, quindi, i punti IVG sono più dei punti nascita».
Ripetiamo quest’ultimo concetto: in proporzione, rispetto al numero di interventi, in Italia ci sono molti più punti per abortire che per far nascere; per essere abortiti anziché venire alla luce. Un confronto drammatico, segno del ribaltamento morale in atto nella nostra società che ha condotto appunto a nuove scelte e priorità di “sanità” nazionale. Anche il vantaggio, in termini assoluti, dei punti nascita potrebbe divenire – di questo passo – solo un ricordo. Le notizie di chiusure di punti nascita, dal Nord al Sud, sono ormai esperienza comune: se nel 2022 erano 395, nel 2011 la rivista specializzata Gyneco (organo dell’Aogoi) riferiva di 570 punti nascita; in soli 11 anni ne sono stati persi quindi 175, quasi un terzo.
Inutile fare ragionamenti e tavoli sull’inverno demografico se non si riconosce che la prima causa di questo inverno è l’aborto legale, insieme ad altre leggi – dal divorzio in poi – che hanno minato il matrimonio e la famiglia e contribuito a cambiare la mentalità rispetto all’accoglienza della vita. A dispetto dell’ipocrisia insita nel suo stesso titolo, «norme per la tutela sociale della maternità», la 194 è la legge di uno Stato che è più interessato alla propria estinzione, che alla propria sopravvivenza.
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