Guerra ucraina, la folle politica di rimuovere ogni soluzione di pace
La realtà ci dice che soltanto una guerra mondiale potrebbe ridare all'Ucraina i confini pre-2014: i Paesi occidentali dicono di non volere l'escalation ma si rifiutano di fissare un obiettivo concreto almeno per il "pareggio". La linea pare quella del "tanto peggio tanto meglio", a spese della popolazione ucraina. Eppure le possibilità di porre almeno le basi su cui costruire un negoziato ci sarebbero...
- LE ARMI NON PORTANO LA PACE, di Rosalina Ravasio
L'atteggiamento dei paesi Nato rispetto al conflitto tra Russia e Ucraina sprofonda sempre più in una surreale schizofrenia. Da un lato, si continua ad alimentare una retorica trionfalistica, questa volta intorno all'ennesimo invio di armamenti all'Ucraina – i carri armati Leopard 2 e Abrams – e si continua a lanciare proclami su una possibile vittoria di Kiev sulla Russia grazie al supporto occidentale, Dall'altro si ammette, con toni più sommessi, che le attuali forniture di sistemi d'arma, come quelle precedenti, non potranno certo imprimere una svolta risolutiva nella guerra, ma al massimo frenare o rallentare l'avanzata delle truppe di Mosca.
Un'ammissione, quest'ultima, che fotografa un dato evidente, sottolineato dai competenti di affari militari: i succitati mezzi corazzati saranno in tutto poco più di un centinaio, contro gli oltre 3000 carri armati russi, e prima di essere consegnati ed essere concretamente utilizzabili dovranno passare diversi mesi.
Più in generale, dopo quasi un anno di conflitto - con tutto il carico di sofferenze, vittime, devastazioni, disastri economici che esso ha finora comportato nei paesi coinvolti e in tutta Europa - si impone a tutti una realtà ben individuata da alcuni fin da subito: vista l'enorme sproporzione di forze e di risorse tra russi e ucraini, una vittoria chiara e netta di questi ultimi, cioè la riconquista della sovranità su tutto il loro territorio e il respingimento delle truppe russe oltre i confini del 1991 (obiettivo ancora oggi quotidianamente rivendicato dal presidente ucraino Zelensky e dal suo esecutivo) è impossibile, a meno che i paesi della Nato non entrino direttamente in guerra con Mosca.
Cosa, quest'ultima, che tutti i governi occidentali, da Washington in giù, sottolineano, oggi come ieri, di non aver alcuna intenzione di fare. Comprensibilmente e per fortuna, perché comporterebbe l'apocalittica prospettiva di una escalation verso una guerra mondiale contro la seconda potenza nucleare del pianeta.
Insomma, appena si diradano le spesse nubi della “narrazione” ossessivamente imposta praticamente a reti unificate in Occidente sull'appoggio bellico a Kiev come frontiera della difesa di libertà, democrazia e diritti umani contro la tirannide di Putin; e appena ci si distrae per un attimo dalle continue illazioni dei media occidentali secondo cui il regime putiniano è sull'orlo del collasso; riemerge alla luce il punto centrale per la comprensione razionale dell'attuale contrapposizione tra i due paesi: per quanto massicciamente si possa aiutarla dall'esterno, l'Ucraina può al massimo “pareggiare” la guerra, limitare le sue perdite, ma non potrà certo tornare a uno status quo precedente il 24 febbraio 2022; men che meno a quello precedente il 2014, quando già la Crimea e parti del Donbass erano passati sotto il controllo russo.
Ma se questo è vero, allora si rivela nitidamente non soltanto quanto in questi mesi la demonizzazione come “putiniani” di tutti gli osservatori che semplicemente sottolineavano tale stato di cose da parte dell'establishment politico e mediatico euro-americano fosse ingiusta, in malafede e puramente strumentale; ma, soprattutto, come la posizione ufficiale dell'amministrazione Biden, della Nato, del G7, dell'Unione Europea sia assolutamente illogica e insostenibile, e celi il sospetto di essere essa stessa in totale malafede.
Se, infatti, si sostiene di non voler far guerra alla Russia ma di voler soltanto consentire all'Ucraina di difendere la propria esistenza e sovranità da una possibile annessione di Mosca, allora sarebbe necessario anche cominciare a dichiarare su quali basi, a partire dalla situazione corrente sul campo, si possano porre prima o poi le condizioni di una risoluzione del conflitto; cioè a quali condizioni l'obiettivo di salvare l'esistenza dell'Ucraina come paese sovrano e la maggior parte possibile del suo territorio potrebbe considerarsi raggiunto.
Dal momento che è impossibile, nelle condizioni attuali, ricacciare i russi al di là dei confini ufficiali, a cosa si potrebbe rinunciare, pur di ottenere un “pareggio” onorevole? Cosa, al contrario, è ritenuto assolutamente irrinunciabile?
E invece proprio su questo punto da parte degli Stati Uniti e della Nato viene un totale, assordante silenzio. La “difesa” di Kiev che si promuove rimane in una nebulosa indefinitezza, senza alcun punto fermo da raggiungere. Una indefinitezza in cui rimangono visibili soltanto i roboanti proclami del governo ucraino, e che sembra fatta apposta per giustificare una protrazione del conflitto a tempo praticamente indeterminato, alimentando il sospetto che l'unico vero scopo degli Stati Uniti e dei loro alleati in questa guerra sia quello di logorare e indebolire Mosca il più possibile, anche al prezzo di ulteriori, innumerevoli lutti, e del dissanguamento economico dell'intero vecchio continente.
Si dirà che a tale silenzio ambiguo corrisponde, dall'altra parte della barricata, l'altrettanto ambiguo e strumentale obiettivo dell'”operazione speciale” lanciata un anno fa da Putin – quella “denazificazione” apparentemente fatta apposta per eccitare i sentimenti nazional-imperial-sciovinisti più torbidi dell'opinione pubblica interna, e continuare nell'invasione potenzialmente fino al rovesciamento del governo di Kiev e alla sua sostituzione con uno Stato-fantoccio. E si dirà, parimenti, che enunciare possibili, circostanziate rinunce territoriali ucraine “accettabili” da parte degli alleati dell'Ucraina significherebbe incitare Mosca a rilanciare con rivendicazioni ulteriori più ambiziose. Sono entrambe, queste, osservazioni ragionevoli.
Ma proprio per smascherare l'ambiguità russa e togliere ad essa ogni alibi per portare avanti ad oltranza una guerra di logoramento la linea più proficua, per le nazioni occidentali, sarebbe quella di risalire, come finora mai si è fatto, alle radici profonde del conflitto: alla divisione etnico-nazionalistica strutturale interna allo Stato ucraino fin dalla fine dell'Urss, alle rivendicazioni di autonomia e indipendenza delle regioni filorusse, alla condizione storica e culturale assolutamente particolare della Crimea.
Se solo si volesse si potrebbe, a partire dalle dolorose esperienze già vissute nella ex Jugoslavia e in altri casi simili, almeno impostare un discorso di principio su come trovare, con il consenso delle parti e della comunità internazionale, un assetto accettabile di convivenza tra istanze diverse e legittime in un territorio diviso e lungamente tormentato.
Se le cancellerie europee e quella di Washington non operano in questo senso, se non tracciano le coordinate di possibili punti di convergenza, allora vuol dire che esse optano soltanto per il “tanto peggio tanto meglio”. Servendosi cinicamente dell'Ucraina come una spina per ferire l'Orso russo, da sfruttare e poi gettare via. Follemente incuranti, in aggiunta, dei rischi di ingestibili conseguenze economiche, politiche ed esistenziali anche per i propri paesi, man mano che la ferita incancrenisce, e le infezioni da essa derivate si diffondono.