Chiusa la Comunità Loyola, il processo a Rupnik può attendere
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Le 40 suore si trovano ora libere da un sistema malato e oppressivo, ma pur sempre in attesa che un giudizio chiaro della Chiesa mostri il volto dell’aggressore.
Non poteva che finire così. La Comunità Loyola, fondata agli inizi degli anni Ottanta da suor Ivanka Hosta e dall’ex-gesuita Marko Rupnik, è giunta al capolinea. La Comunità nasceva a Lubjana, in Slovenia, come un progetto per vivere il carisma ignaziano in piccole comunità femminili, senza monasteri o grandi strutture, ma con una vita condivisa in normali appartamenti.
Ora, per decreto del Dicastero per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica, la Comunità, che nel frattempo si è diffusa anche in Italia, Portogallo, Polonia, Brasile e nel continente africano, dovrà essere sciolta entro un anno a partire dalla data del decreto, 20 ottobre 2023. L’Arcidiocesi di Lubjana lo ha reso noto in un comunicato del 15 dicembre, dopo che il decreto era stato comunicato il giorno precedente alle suore della Comunità convocate in diocesi o collegate online. Tre delegati sono stati inviati dalla Santa Sede per rendere nota la decisione del Dicastero: il canossiano p. Amedeo Cencini, suor Marisa Adami delle Sorelle della Sacra Famiglia e il frate minore p. Vittorio Papa.
Il vescovo, mons. Stanislav Zore, a capo dell’arcidiocesi slovena dal novembre 2014, trovandosi in mano la patata bollente di una Comunità di vita religiosa di diritto diocesano fondata e forgiata da Rupnik, piena di problemi e approvata nel 1994 da mons. Alojzij Šuštar, aveva trovato l’escamotage per liberarsene: la casa generalizia delle suore sta pur sempre a Roma; dunque, se ne occupi Roma. Un po’ come Pilato che aveva rimpallato il galileo Gesù all’autorità di re Erode. Fatto sta che mons. Zore era riuscito nell’intento di affidare le sorti della Comunità al Dicastero per gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica, il quale aveva quindi nominato commissario il vescovo ausiliare di Roma, mons. Daniele Libanori.
Dalla visita e dai colloqui di Libanori con le suore è emerso uno scenario piuttosto preoccupante che avevamo già descritto (qui e qui): divisione della Comunità, governo controllante ed oppressivo della superiora, mancanza di distinzione tra foro interno e foro esterno, abuso del voto di obbedienza. Quindi, la situazione più eclatante delle suore abusate sessualmente e spiritualmente da Rupnik, alle quali era stato intimato il silenzio da suor Ivanka Hosta, il cui rapporto con Rupnik non è mai stato chiaro. Fino alla rottura definitiva nel 1993, dopo un litigio rovente tra i due fondatori e la partenza di Rupnik per Roma, con un gruppetto di suore. Alla luce di quanto emerso, Libanori aveva disposto l’esautorazione e una specie di isolamento di suor Hosta nella comunità di Braga, in Portogallo; isolamento più fittizio che reale, dal momento che l’ex superiora poteva di fatto continuare a tenere le fila della comunità.
Il comunicato della diocesi slovena ha così riassunto le enormi difficoltà presenti nella Comunità: «problemi riguardanti l’esercizio dell’autorità e della convivenza comunitaria». Uno scenario non certo dettagliato, ma decisamente più realistico di quello idilliaco dipinto dalla beffarda Nota del 18 settembre 2023 da parte del Vicariato di Roma, a seguito dell’ “indagine” sulla comunità del Centro Aletti da parte del messo del cardinale De Donatis, don Giacomo Incitti (vedi qui).
Ora le circa quaranta suore della Comunità dovranno trovarsi una collocazione. È assai probabile che circa la metà di loro cercherà di stringersi attorno alla fondatrice, mentre le altre andranno in ordine sparso a cercare di ricostruire le fila di una vita. Perché non bisogna dimenticare che, se è bastato un decreto per sciogliere la Comunità, non sarà invece così facile ricostruire l’equilibrio e la serenità di persone devastate su un duplice fronte: dapprima, dagli abusi d’autorità e di natura sessuale da parte di Marko Rupnik e poi, stando alle testimonianze interne, dal governo opprimente di suor Ivanka Hosta.
Non bisogna dimenticare che è stato Rupnik a cercare e selezionare le vocazioni della Comunità Loyola, fino all’anno della definitiva rottura, e a gestire concretamente il carisma di fondazione, che, secondo quanto ci è stato riferito, egli riteneva che suor Hosta detenesse ma non fosse in grado di comunicare e strutturare. Così come non bisogna dimenticare che alcune delle suore rimaste nella Comunità, dopo che Rupnik se ne andò a Roma con un gruppetto di loro per fondare la comunità del Centro Aletti, erano a conoscenza delle “attenzioni” che Rupnik aveva dedicato ad alcune sorelle e che mons. Libanori aveva di fatto ammesso. Libanori, il 18 ottobre 2022, ricordava pubblicamente che «le persone ferite e offese, che hanno visto la loro vita rovinata dal male patito e dal silenzio complice, hanno diritto di essere risarcite anche pubblicamente nella loro dignità, ora che tutto è venuto alla luce». Ed aggiungeva: «C’è la verità tremenda dei fatti contestati che impone alla Chiesa di assumere la propria responsabilità dichiarando senza ambiguità chi è la vittima e chi è l’aggressore e assumendo le misure necessarie perché il ministero della Chiesa non venga profanato per lo scandalo».
Ora, queste suore si trovano libere dall’oppressione di una Comunità divenuta malata, ma pur sempre in attesa che un giudizio chiaro della Chiesa mostri appunto il volto dell’aggressore. E dei complici, a tutti i livelli. Giustizia ed onestà vorrebbero che il passo concreto dell’inevitabile scioglimento della Comunità Loyola sia seguito dal processo, altrettanto concreto, al mosaicista sloveno e che il vaso di Pandora sia finalmente scoperchiato. L’apertura del processo a carico di Rupnik era stata annunciata il 27 ottobre scorso, dopo che papa Francesco aveva finalmente deciso di derogare alla prescrizione relativa ad alcuni casi di abuso avvenuti agli inizi degli anni Novanta. Ai quali vanno aggiunti almeno altri quindici casi ammessi successivamente dai vertici della Compagnia di Gesù (vedi qui) e che riguardano un periodo che va dalla metà degli anni Ottanta, dunque dalla fondazione della Comunità Loyola, al 2018.
Ad oggi però di tale processo non si sa ancora nulla.
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