Processo a Rupnik: il minimo sindacale è fare nomi e cognomi
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L'inatteso ritiro della prescrizione è un segnale importante per la credibilità della Chiesa sul fronte abusi, purché faccia luce non solo sulle accuse imputate all'ex gesuita, ma anche su chi e perché ha gestito il caso in modo tale da ferire vittime e fedeli.
Tutto lo scandalo mediatico provocato dai reiterati tentativi di insabbiare le testimonianze delle vittime di Rupnik, impedire un giusto processo, togliere sanzioni, permettere all’ex-gesuita di continuare a fare quel che gli pare e piace, ha rischiato di non avere altra conseguenza che un timido tentativo di “supportare” le vittime.
La Pontificia Commissione vaticana per la protezione dei minori e delle persone vulnerabili (CPPMPV), guidata dal cardinale Sean O’Malley, aveva infatti inviato, in data 8 ottobre 2023, una lettera piuttosto formale a qualcuna delle vittime; la lettera aveva lo scopo di «rivedere i processi e le azioni che sono state svolte nel suo caso particolare, per identificare come tutto ciò possa aver influito sulla legittimità del suo reclamo, dei suoi diritti e del sostegno e accompagnamento che non le sono stati dati». Un contatto finalizzato ad un incontro via zoom con il presidente della CPPMPV, con il segretario padre Andrew Small, oltre che con Irma Patricia Espinosa Hernández, membro della medesima e interfaccia con le vittime.
Vittime che sono state raggiunte in un modo curioso, ossia mediante ricerca sulla rete dei contatti delle cinque firmatarie della lettera del 19 settembre scorso e di suor Samuelle. Ma, da parte loro, l’amara sorpresa di leggere in quella lettera queste righe: «È importante chiarire che il nostro lavoro si concentrerà esclusivamente sulla revisione della qualità, dell’efficacia e dell’efficienza dell’attenzione prestata alle vittime (psicologica, medica, spirituale, pastorale, legale), nonché sulle procedure canonicamente stabilite durante tutto il processo. Quindi, non abbiamo il potere di modificare la sentenza esistente, né di intervenire nelle decisioni prese dal tribunale e dalle istanze corrispondenti».
Un’affermazione che ha fatto venire più di un sospetto alle sei convocate e, ancora una volta, la sensazione di essere prese in giro. Fabrizia Raguso (qui una nostra intervista) ha domandato anzitutto che tutte le vittime coinvolte fossero convocate; e poi ha richiesto un ordine del giorno dell’incontro, arrivato cinque giorni dopo, ma dal contenuto tutt’altro che chiaro. «I messaggi – ha dichiarato Fabrizia Raguso ad Adista – hanno sempre sottolineato che questo contatto era puramente procedurale: ci chiedevano aiuto per comprendere come erano andate le cose e in quali aspetti non eravamo state né sostenute né aiutate. Hanno sempre sottolineato che non ci sarebbe stata nessuna ricaduta sulle decisioni già prese, non c’era nessuna ipotesi di riaprire il procedimento su Rupnik e poter cambiare le decisioni finali. L’unico interesse della Commissione era ascoltarci e poter migliorare il protocollo per casi identici».
Una richiesta piuttosto infelice, se si pensa che è stata fatta a persone che per anni sono state usate ed abusate. Perché la CPPMPV si è presentata in sostanza con una lettera che suonava più o meno così: non siamo al vostro servizio per farvi giustizia, ma siete voi al nostro, per migliorare le procedure… E poi il più che legittimo sospetto che quel contatto «fosse l’ultima possibilità che cercavano per riscattare un processo che nella lettera avevamo già denunciato, di silenzio assoluto e indifferenza verso le vittime», spiega ancora Fabrizia. Le denunce dettagliate dei fatti erano già infatti state depositate alla Dottrina della Fede con altre testimonianze raccolte dai Gesuiti. Eppure di tutto quel materiale nulla è stato preso in considerazione per avviare un giusto processo, ma solo per trovare “soluzioni” che non nuocessero eccessivamente a Rupnik. Da qui il rifiuto di cinque convocate su sei di accettare questo invito.
Fabrizia Raguso fa un altro nome eccellente, fino ad ora rimasto in ombra: quello del cardinale prefetto del Dicastero per la Vita Consacrata. Braz de Aviz aveva infatti ricevuto alla fine del 2021 – dunque molto prima che il caso esplodesse a livello mediatico – la richiesta di un incontro da parte di alcune consacrate della Comunità Loyola, per spiegare «che tutte le vicende che avevano portato a un effettivo abuso di potere nella Comunità Loyola erano anche legate alla copertura da parte della fondatrice delle responsabilità di Rupnik». Il cardinale le ha ricevute, ma in sostanza non ha fatto nulla.
Dunque, fino a pochissimi giorni fa, la “mano tesa” della CPPMPV escludeva la possibilità di un nuovo processo. Poi, la notizia della riapertura del caso da parte del Dicastero per la Dottrina della Fede. La reazione da parte delle vittime non è affatto entusiasta: «Non abbiamo idea di cosa sia successo nel frattempo, né di chi possa aver spinto il Papa a ritirare la prescrizione. Confesso che non escludo l’ipotesi che questo nuovo processo sia un’azione di recupero definitivo dell'innocenza dell'accusato», ci scrive una di loro. Reazione più che comprensibile, dal momento che fino ad ora la linea è stata sempre e solo quella di difendere Rupnik, non di fare verità e giustizia. E dunque la diffidenza è d’obbligo.
La lettera di “offerta di aiuto” potrebbe essere stata l’unica concessione di Papa Francesco alle vittime, per mostrare in futuro che anche loro sono state ascoltate: il comandamento sinodale sarebbe stato dunque adempiuto. Ma il rifiuto delle cinque donne di accettare una proposta formale, che escludeva apertamente ogni riferimento alla giustizia, potrebbe aver spinto qualcuno a fare presente al Papa che non tutti si accontentano di “essere ascoltati” ed essere poi gabbati.
La decisione del Papa di permettere l’avvio di un nuovo processo a carico di Rupnik – dopo che il primo era terminato con la condanna unanime dell’ex-gesuita per l’assoluzione del complice de sexto e la scomunica latæ sententiæ, revocata da Francesco a tempo di record – non può cancellare con un colpo di spugna quanto accaduto in questi anni. Dai vertici della Chiesa sembra ci sia stato proprio un problema con la giustizia, che deve evidentemente apparire come qualcosa di riprovevole, in insanabile contrasto con la misericordia. Perché con Rupnik, Francesco non ha fatto altro che portare avanti quel suo rifiuto delle regole della giustizia che si è manifestato in molti altri ambiti, a partire proprio da quello degli abusi, vista la sua difesa di personaggi come Barros, Ricca, McCarrick o Zanchetta e la sua reticenza ad avviare processi. Quelli giuridici.
La serietà, più che auspicabile, del nuovo processo annunciato non salverà dunque il Papa, ma potrebbe essere almeno il segnale che ancora esiste un barlume di speranza di ricevere giustizia nella Chiesa. Perché ne va appunto della reputazione dell’istituzione ecclesiastica, della sua credibilità. Il minimo sindacale che ci si attende ora, dopo mesi e mesi di beffe delle vittime e dei fedeli che si attendevano un minimo di chiarezza, non è solo che il processo a Rupnik possa fare verità e portare a congrue sanzioni nei confronti di chi sarà eventualmente riconosciuto colpevole, ma che finalmente si trovi il coraggio di dare comunicazioni ufficiali che ricostruiscano cos’è accaduto nella gestione del caso Rupnik, facendo nomi e cognomi.
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