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PERSECUZIONI

Myanmar, non solo Rohingya. Le altre vittime dimenticate

"Il futuro del Myanmar dev’essere la pace, una pace fondata sul rispetto della dignità e dei diritti di ogni membro della società, sul rispetto di ogni gruppo etnico", dichiara il Papa in visita al paese asiatico. E tutti pensano che alluda ai musulmani Rohingya. Ma anche nel Kachin cristiano sono in corso atrocità di cui pochissimi si accorgono.
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Esteri 29_11_2017

«Il futuro del Myanmar dev’essere la pace, una pace fondata sul rispetto della dignità e dei diritti di ogni membro della società, sul rispetto di ogni gruppo etnico e della sua identità, sul rispetto dello stato di diritto e di un ordine democratico che consenta a ciascun individuo e ad ogni gruppo – nessuno escluso – di offrire il suo legittimo contributo al bene comune».  Queste le parole di Papa Francesco a Nay Pyi Taw, capitale del Myanmar, nel suo discorso tenuto assieme alla Consigliera di Stato, nonché premio Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi. I media hanno interpretato le parole del Santo Padre come una condanna alla persecuzione dei Rohingya, popolo apolide, musulmano, scacciato dallo stato sudoccidentale del Rakhine. E che non può essere nominato, per evitare incidenti diplomatici, perché i birmani non riconoscono neppure la definizione di “Rohingya” Ma per “ogni gruppo etnico”, il Papa intendeva proprio “ogni”, non solo i Rohingya che sono gli ultimi (in ordine di tempo) ad essere perseguitati e non sono neppure gli unici.

La ex Birmania, sin dalla fine degli anni ’40, quando raggiunse l’indipendenza dall’Impero Britannico, è un paese a maggioranza buddista, ma include minoranze cristiane nell’Est del paese e musulmane nel Sudovest. I cristiani sono soprattutto di etnia Kachin, Karen, Shan e Chin, i primi tre nell’Est del paese, lungo i confini con la Tailandia e la Cina, il quarto (Chin), nell’Ovest, confinante con lo stato di Rakhine dove abitano i Rohingya. Con l’ascesa al potere del regime militare, di ideologia socialista e nazionalista e incardinato sulla maggioranza buddista, la tensione è degenerata in conflitto civile. Le proporzioni dell’esodo di queste etnie tribali sono, solo tenendo conto del presente, pari a quelle dei Rohingya. Le cifre fluttuano, ma secondo i dati dell’Idmc (Internal Displacement Monitoring Centre), i membri delle etnie tribali che hanno dovuto abbandonare le loro case sono circa 400mila profughi interni e 120mila sono nei campi profughi della vicina Tailandia, a fronte di 600mila Rohingya fuggiti nel Bangladesh.

La guerra contro queste minoranze non è affatto terminata. Il conflitto nello stato del Kachin è uno dei più lunghi della storia contemporanea: scoppiato nel 1961 si è teoricamente concluso con un armistizio fra governo e la Kia (l’esercito clandestino dei Kachin) nel 1994. In base agli accordi del 2011 e 2012, fra il governo del Myanmar e i rappresentanti dei “gruppi armati non governativi” (Nsag), i 400mila rifugiati interni delle etnie tribali dovrebbero essere più liberi di viaggiare all’interno del paese e di provare a ricostruirsi una vita, anche lavorativa. Ma nel Kachin, nel 2011, il conflitto è ricominciato. La persecuzione è tutt’altro che finita.

L’attenzione del mondo è concentrata sulla tragedia del Rakhine, dove i musulmani vengono scacciati dall’esercito dai loro villaggi con metodi da pulizia etnica. Ma la guerra nello stato settentrionale del Kachin e nella parte settentrionale dello Shan ha registrato una forte intensificazione proprio negli stessi mesi, anche se ha catturato meno l’attenzione dell’opinione pubblica. Già dall’agosto del 2016 erano in corso combattimenti e nell’estate scorsa un rapporto di Amnesty International documentava atrocità dell’esercito e fughe massicce di profughi. Il rapporto Tutti i civili soffrono, pubblicato a giugno documenta come le truppe governative abbiano commesso sistematicamente crimini di tortura, esecuzioni sommarie, bombardamenti indiscriminati di villaggi e imposto restrizioni punitive sui movimenti dei civili nelle aree colpite, inclusa la limitazione dell’accesso di aiuti umanitari.

Giusto per fare qualche esempio: “Nella città di Monekoe (a Nord, sul confine con la Cina, ndr), l’esercito ha arbitrariamente arrestato 150 persone, uomini, donne e bambini che stavano preparando una festa di nozze. Dopo aver rilasciato le donne e i bambini, così come uomini scelti in base alla loro appartenenza etnica, l’esercito ha usato i prigionieri rimasti nelle sue mani come scudi umani, lungo il perimetro difensivo di una base; molti di loro sono stati uccisi e altri gravemente feriti dal fuoco dei fucili e delle granate”. “Diciotto giovani uomini sono stati uccisi uccisi in un solo massacro nel villaggio di Nam Hkye Ho (sempre al confine con la Cina, ndr) nel novembre del 2016. Amnesty International ha intervistato due testimoni oculari che hanno riferito che circa 100 soldati delle forze armate del Myanmar sono entrati nel villaggio dopo aver combattuto nei suoi pressi contro le forze del Mndaa (milizia etnica del Kachin, ndr). Gran parte degli abitanti del villaggio, compresi i bambini e le donne, sono fuggiti mentre i combattimenti si avvicinavano alle loro case. Dopo aver lasciato andare gli anziani che erano rimasti, i militari hanno costretto i giovani a marciare, minacciandoli armi in pugno. Poco dopo, gli abitanti che erano fuggiti hanno udito gli spari, dalla stessa direzione in cui erano andati”. Fuggiti in Cina e prontamente rimpatriati, i sopravvissuti hanno ritrovato i corpi dei giovani arrestati in due fosse comuni.

Secondo il rapporto, circa 100mila abitanti hanno dovuto abbandonare le loro case e le loro fattorie in pochi mesi di conflitto. “La comunità internazionale – conclude il rapporto – è a conoscenza dei terribili abusi sofferti dalla minoranza Rohingya nello stato di Rakhine, ma nel Kachin e nel Nord dello stato Shan, noi vediamo un comportamento altrettanto scioccante da parte dell’esercito contro altre minoranze etniche”.

Appunto, quando il Papa parla di “ogni gruppo etnico”, dobbiamo pensare anche a queste vittime. Non esistono vittime di serie B.