Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
la crisi della chiesa / 4

Lo "stato di necessità" da solo non legittima la FSSPX

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Alcuni chiarimenti sui presupposti (lacunosi) che i sacerdoti "lefebvriani" invocano al sostegno del proprio ministero privo di missio canonica. E comunque è la FSSPX che rifiuta di entrare nella Chiesa.
- DOSSIER: Il caso FSSPX

Ecclesia 22_08_2023 English Español

Allorché si ragiona sulla situazione canonica della FSSPX, è necessario tenere sempre presente sullo sfondo alcuni essenziali elementi storici. Non è “Roma” a non voler dare un posto nella Chiesa alla FSSPX, ma è la Fraternità che ha sempre rifiutato di entrarvi.

Accadde così nel 1988 con il suo fondatore, Mons. Marcel Lefebvre, che firmò il protocollo del 5 maggio 1988 ed il giorno dopo mandò al Cardinale Ratzinger una comunicazione nella quale dichiarava di voler ritirare la firma; nella stessa comunicazione imponeva alla Santa Sede l’ ultimatum che la consacrazione episcopale concessa da Roma avvenisse al più tardi il 30 giugno. Il 24 maggio, Lefebvre alzava la posta, richiedendo 3 vescovi. Il 30 maggio, Ratzinger comunicava a Lefebvre che avrebbe fatto accelerare l’abituale procedura per la nomina di un vescovo, in modo che la consacrazione potesse avvenire il 15 agosto. Lefebvre rifiutò, procedendo alla consacrazione di quattro vescovi nella data da lui voluta.

I contatti successivi della Fraternità con la Santa Sede sono stati all’insegna dell’ambiguità (per maggiori informazioni, vedi qui), con l’allora Superiore Generale, mons. Bernard Fellay, che dapprima rifiutava un accordo pratico, e poi dava il via libera proprio ad un accordo pratico. Poi puntualmente respinto.

Poi il cambio della guardia ai vertici. Pochi mesi dopo la sua elezione a Superiore Generale, don Davide Pagliarani chiudeva definitivamente il discorso, mostrando con estrema chiarezza la volontà di non voler arrivare ad alcuna regolarizzazione: «anche se un domani le autorità romane ritornassero sui loro passi, proponendoci una dichiarazione in via di principio accettabile, cosa ci garantirebbe che, il giorno dopo, questa dichiarazione resterebbe ancora sufficiente per i nostri interlocutori?» (cit. qui, p. 4).

Per giustificare la propria posizione, la FSSPX presenta un’argomentazione che sostanzialmente si basa sull’intreccio tra stato di necessità, salus animarum e virtù dell’epicheia. In sostanza, la gravità dell’attuale crisi – che noi della Bussola non neghiamo, anzi – giustificherebbe la sospensione di alcune leggi canoniche per poter raggiungere il fine della salvezza delle anime, che è la suprema lex della Chiesa. Dunque, per raggiungere il fine supremo cui mira la legge – la salus animarum – è lecito a volte andare contro la lettera della legge.

Partiamo proprio dall’epicheia. È lo stesso principio richiamato inopportunamente da papa Francesco in Amoris Lætitia § 304 per consentire (in certi casi) la Comunione ai divorziati-risposati. Ora l’epicheia è quella virtù che permette di vivere secondo il bene inteso dalla legge, quando questa, a motivo della sua universalità, non riesce a prevedere alcune situazioni particolari.

Prima considerazione: l’epicheia non si applica né agli assoluti morali, né alla legge divina. Trascuriamo i primi, che qui non ci servono e veniamo alla seconda. La legge divina, avendo come legislatore supremo Dio stesso, è perfettamente in grado di prevedere tutte le situazioni; alla legge divina non sfugge alcuna situazione particolare e dunque nessuna circostanza autorizza a contraddirla. Questa è la ragione fondamentale per cui nessun potere umano, nemmeno la plena potestas del Papa, può contrastare la legge divina. Si pensi al matrimonio sacramentale rato e consumato. La salus animarum si adempie perciò sempre perfettamente conformandosi alla legge divina. E questo anche quando a noi sembra il contrario. Prendiamo il caso di un bambino non battezzato che sta morendo. Se io ho solo del chinotto e non dell’acqua, non lo posso battezzare, anche se in ballo c’è la salute della sua anima; il battesimo sarebbe invalido. Perché? Perché la materia del sacramento del battesimo è di diritto divino e la Chiesa non può dispensare.

Ora, il punto è proprio questo: è Cristo stesso che ha conferito ai successori di Pietro il diritto di istituire i vescovi, in modo diretto o delegato, in virtù del fatto che è tramite Pietro che i vescovi ricevono tutto quello che hanno, esercitando poi con piena autorità e non semplicemente come “delegati” del Papa. E questo a prescindere dalle forme storiche in cui ciò si realizza; ma è un dato di fatto che, anche quando non c’era il mandatum apostolicum, il Papa poteva rifiutare un’elezione, deporre un vescovo, impedire una consacrazione. Era ed è nella sua piena facoltà, in virtù del potere delle chiavi dato da Cristo a Pietro. Questa è la visione cattolica. Né vale l’obiezione che è stato solo con Pio XII che le consacrazioni senza mandato vengono colpite con la scomunica (a dire il vero, San Tommaso già prevedeva una scomunica). La Sede Apostolica può aumentare o alleggerire le sanzioni, ma questo non cambia la specie dell’atto scismatico ed il fatto che sia un’usurpazione del diritto che il Papa ha ricevuto da Cristo.

Strettamente collegato al primo punto è il fatto che è proprio per il bene comune della Chiesa che non è possibile consacrare dei vescovi contro la volontà del Papa, perché si porrebbe in essere un attacco diretto all’unità della medesima. San Tommaso spiega che il fine della legge e l’intenzione del legislatore è il bene comune; «se quindi si danno dei precetti che implicano la conservazione stessa del bene comune, oppure l’ordine stesso della giustizia e dell’onestà, tali precetti contengono l’intenzione stessa del legislatore: quindi non ammettono dispensa» (Summa Theologiae, I-II, q. 100, a. 8). E questo è proprio quello che riguarda i precetti sulla consacrazione dei vescovi, così come ritroviamo nei testi del Magistero (alcuni dei quali citati nei precedenti articoli).

Terzo ed ultimo: l’epicheia interpreta l’intenzione oggettiva del legislatore. Ma è proprio il legislatore  – ossia il Papa – ad essersi espresso contrariamente alle consacrazioni episcopali di mons. Lefebvre, in virtù di un diritto che gli è stato dato da Dio stesso, e a non aver mai accettato le successive giustificazioni della FSSPX quanto alla sua interpretazione della suprema lex e dell’epicheia. L’epicheia si applica quando il legislatore è inaccessibile, almeno nel momento in cui si deve operare una scelta; e nel caso della FSSPX il legislatore non solo era accessibile, ma era stato anche effettivamente più volte raggiunto.

La FSSPX rivendica altresì una giurisdizione di supplenza – Ecclesia supplet – proprio in ragione dello “stato di necessità”. Il riferimento è al can. 144 §1: «Nell’errore comune di fatto o di diritto, e parimenti nel dubbio positivo e probabile sia di diritto sia di fatto, la Chiesa supplisce, tanto nel foro esterno quanto interno, la potestà di governo esecutiva». Ora, questa supplenza che proviene dal Papa può essere esplicita o implicita. Nel primo caso viene appunto esplicitata nella normativa canonica, come nel caso del sacerdote dimesso dallo stato clericale che riceve esplicitamente giurisdizione dal Papa per assolvere un morente. Nel secondo caso, perché la Chiesa supplisca è necessario supporre il consenso implicito del legislatore, dunque del Papa. Ma nel caso della FSSPX, le consacrazioni episcopali non sono avvenute semplicemente senza il mandatum, ma esplicitamente contro la proibizione del Papa, che dunque ha esplicitamente rifiutato di conferire la missio giuridica, da cui dipende la giurisdizione.

La Chiesa dunque non può supplire se il suo Capo rifiuta la supplenza, ma supplisce solo se il Papa la concede esplicitamente o almeno implicitamente. Lo stato di necessità da solo non è sufficiente a rivendicare la supplenza. L’«errore comune di fatto o di diritto» richiamato dal can. 144 non può essere chiamato in causa nemmeno per sostenere la validità delle assoluzioni conferite dalla FSSPX prima del 2017. La Fraternità ha indebitamente esteso questo concetto ai fedeli che frequentano le loro cappelle, ma il canone – come ha spiegato in modo cristallino John Salza (vedi qui e qui) – si applica «quando la maggioranza di una comunità può concludere che il sacerdote in questione ha la giurisdizione abituale autorizzata dall’Ordinario locale». In pratica, una comunità parrocchiale trova nel confessionale della propria chiesa un sacerdote che ritiene avere l’abituale giurisdizione. I fedeli infatti che frequentano le chiese e i santuari cattolici non sono tenuti ogni volta a chiedere al sacerdote se abbia o meno la giurisdizione. Se però quel preciso sacerdote non ha la giurisdizione per confessare, la comunità si trova perciò in un errore di giudizio, in presenza del quale la Chiesa supplisce. Il canone esiste precisamente per proteggere la comunità cattolica in comunione con la Chiesa, non per legittimare il ministero di chi non è in comunione con la Chiesa.

Il punto decisivo è che i fedeli devono ritenere che il sacerdote in questione abbia la giurisdizione abituale, non quella di supplenza; e lo suppongono in virtù del fatto che trovano il confessore nelle parrocchie e nei santuari, e non in edifici adibiti a cappelle di comunità che non hanno  giurisdizione. Questo fatto è confermato dalla stessa FSSPX, che deve appunto ricorrere alla giurisdizione di supplenza, perché sa di non avere quella abituale. Il canone in questione inoltre non fa alcun cenno allo “stato di necessità” come legittimante la supplenza della Chiesa.

Ancora, la FSSPX, per giustificare la ragione per cui continua ad esercitare un ministero illegittimo, si richiama al principio dell’equità canonica presente nel can. 19: «Se su una determinata materia manca una espressa disposizione di legge sia universale sia particolare o una consuetudine, la causa, se non è penale, è da dirimersi tenute presenti le leggi date per casi simili, i principi generali del diritto applicati con equità canonica, la giurisprudenza e la prassi della Curia Romana, il modo di sentire comune e costante dei giuristi».

Che cos’è l’equità canonica? È il principio che guida chi deve applicare la legge della Chiesa quando si è in presenza di una lacuna legis, cioè quando la legge non prevede espressamente qualcosa di specifico. In queste situazioni, come dice il canone, si devono tenere presenti i casi simili, i principi generali del diritto, la tradizione giuridica della Curia romana e il parere comune e costante dei giuristi.

Anzitutto facciamo notare che si può avvalere dell’equità canonica soltanto chi è chiamato legittimamente ad applicare la legge canonica; i sacerdoti della FSSPX, non avendo alcuna missione canonica, non lo possono fare. Coloro che invece sono chiamati a farlo, hanno sempre dichiarato che la Fraternità svolge un ministero illegittimo. Entrando nella sostanza, questo principio non può essere utilizzato quando si tratta della legge divina e non di una legge meramente canonica, perché alla legge divina non è imputabile alcuna lacuna. Inoltre, non siamo comunque in presenza di alcuna lacuna legis, perché la legge canonica prevede con chiarezza cosa fare in caso di una consacrazione episcopale illecita e di un ministero esercitato illecitamente. Ultimo rilievo: come si è visto, l’equità canonica richiede che ci si riferisca a casi simili, alla prassi e giurisprudenza della Curia romana, etc. Ora, i casi simili (non uguali!) portano tutti in un’unica direzione: consacrare un vescovo contro la volontà del Papa è un atto scismatico e il clero che esercita il proprio mandato senza una missio canonica lo fa in modo illegittimo.

4. Fine



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