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Ora di dottrina / 138 – La trascrizione

L’anima di Cristo: l’intelletto – Il testo del video

In Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo, c’è sia un’intelligenza divina sia un’intelligenza umana. I suoi tre tipi di conoscenza: la scienza dei beati (visione beatifica), la scienza infusa, la scienza acquisita.

Catechismo 17_11_2024

Proseguiamo le nostre catechesi sulla persona di nostro Signore Gesù Cristo. Abbiamo dedicato una catechesi alla grazia di Cristo, cioè alla pienezza della grazia di Cristo come singolo, come persona; una seconda catechesi alla grazia di Cristo in quanto capo della Chiesa, cioè quella grazia che è presente in Lui in pienezza e viene poi riversata su tutte le membra di quel corpo mistico che è la Chiesa, tutti quegli uomini che sono trovati in Lui mediante il Battesimo.

Oggi iniziamo una serie di incontri sulla natura umana di Cristo. La grazia che abbiamo visto fino adesso evidentemente è la grazia di Cristo nella sua natura umana, perché nella sua natura divina non ha bisogno di una grazia partecipata: Dio non riceve la grazia, Dio è la sorgente di ogni grazia. Adesso iniziamo appunto un’indagine sulla persona di Cristo nella sua natura umana, che ha ricevuto queste grazie di cui abbiamo parlato le scorse volte.

Oggi in particolare ci dedichiamo a una facoltà dell’anima umana di Cristo: l’intelletto. Abbiamo parlato delle precisazioni del dogma relativo all’Incarnazione e quindi delle corrispondenti eresie (vedi qui, qui e qui) e abbiamo detto che l’affermazione fondamentale dell’integrità dell’umanità assunta richiede che in Cristo, vero Dio e vero uomo, ci sia un’intelligenza umana, non solo un’intelligenza divina, una volontà umana e non solo una volontà divina e poi, evidentemente, un corpo umano. Saranno queste tre dimensioni della sua umanità che ci terranno compagnia in questo e nei prossimi incontri.

Vediamo quindi di indagare un po’ la conoscenza di Cristo. Nel Catechismo della Chiesa Cattolica, dal n. 471 al n. 478, abbiamo, molto in sintesi, una carrellata sull’anima di Cristo, sulla sua conoscenza, sulla sua volontà, sul suo corpo e sul cuore del Verbo incarnato. Partiamo dalla conoscenza di Cristo. Il Verbo ha assunto un’umanità vera e completa. Dunque, oltre alla conoscenza divina, ha avuto una conoscenza, una scienza umana, creata. Teniamo sempre sullo sfondo il principio fondamentale dell’unione ipostatica: l’unità nel Verbo divino di due nature distinte tra loro. “Distinte” vuol dire che ciascuna di loro conserva perfettamente le caratteristiche della propria natura. Questo è importante ricordarlo.

Se non si tiene presente questo dato dogmatico, si potrebbe pensare – e infatti è l’obiezione a cui risponde san Tommaso nelle quæstiones dedicate alla scienza beatifica – che Cristo non avesse bisogno di una scienza umana, di nessun genere: essendo Dio, di quale conoscenza umana aveva bisogno? E tuttavia, se non avesse avuto una conoscenza realmente umana, il dogma dell’unione delle due nature nell’unica persona del Verbo, e quindi dell’Incarnazione, dell’assunzione di una vera e integra natura umana, si dissolverebbe.

Per questo san Tommaso, nella quæstio 9 della terza parte della Summa, afferma che l’anima di Cristo ha avuto tre tipi di scienza: la scienza dei beati, o visione beatifica; la scienza infusa e la scienza acquisita. Vediamo che cosa vuol dire.

Partiamo dalla scienza dei beati, o visione beatifica. Avevamo già accennato al fatto che in Cristo, fin dal suo concepimento, la sua natura umana ha potuto godere della visione beatifica. La prima obiezione, o meglio, un’incomprensione che potremmo avere è la seguente: perché Cristo ha avuto la visione beatifica se era Egli stesso Dio? Se è Dio, non ha una visione beatifica, evidentemente: la visione beatifica è la visione di Dio da parte di una natura creata. Ed è appunto quello che dicevamo prima, perché realmente una natura umana assunta è una natura creata e dunque ha una visione che non è la stessa visione che la divinità ha di sé stessa, ma è appunto quella visione propria della creatura che vede Dio. È proprio quindi la distinzione delle due nature che ci fa comprendere come l’anima umana di Cristo doveva essere “elevata” alla visione beatifica.

L’altra domanda che ci potremmo porre è questa: perché l’anima di Cristo è stata elevata alla visione beatifica sin da subito, mentre noi dobbiamo attendere la morte in grazia per poter vedere Dio? La risposta ce la dà san Tommaso nell’art. 2 della quæstio 9. Si tratta di una ragione importante. San Tommaso dice che noi uomini raggiungiamo la beatitudine non in virtù di una nostra capacità, di un nostro sforzo, di nostre virtù. Noi raggiungiamo la beatitudine «per mezzo dell’umanità di Cristo». Cioè, noi possiamo giungere alla visione beatifica grazie all’umanità di Cristo. Ovvero: la visione beatifica di cui gode il Signore Gesù è la causa della nostra visione beatifica o, se preferite, noi – innestati nella sua umanità – partecipiamo di tutto ciò che si trova in questa umanità.

L’altra volta abbiamo visto che la pienezza della grazia che è in Cristo è la nostra grazia, è ciò a cui noi possiamo partecipare, ciascuno secondo la sua misura. Anche qui c’è qualcosa di analogo: la visione beatifica che noi avremo non è un’altra cosa rispetto alla visione beatifica dell’umanità di Cristo. La visione beatifica dell’umanità di Cristo è la causa della nostra visione beatifica. Ed è precisamente per questo, ci dice san Tommaso, che Cristo ebbe subito la visione beatifica, perché Egli doveva essere la causa della nostra, per cui non poteva attendere la morte e resurrezione, quindi la visione beatifica dopo la morte, come avviene invece per tutti noi.

In Cristo la visione beatifica fu chiaramente in sommo grado, perché Egli conobbe perfettamente nella sua umanità il Verbo a cui era unito ipostaticamente. Dunque, non c’è solo un’anteriorità della sua visione beatifica rispetto alla nostra, ma c'è anche una superiorità di perfezione che chiaramente scaturisce dall’unione ipostatica. La visione della divinità da parte dell’anima umana di Cristo era in assoluto la più perfetta proprio perché era unito a Dio ipostaticamente, nella persona del Verbo. Ecco quindi il grande dogma dell’Incarnazione.

San Tommaso dice inoltre che, in virtù di questa visione beatifica perfetta e già presente fin dal primo istante della vita terrena di nostro Signore, Cristo conosceva, nel Verbo, tutte le cose. Nell’art. 2 della quæstio 10, san Tommaso è pronto a muoversi un’obiezione e rispondervi adeguatamente. Parliamo in particolare della prima obiezione, rispetto al fatto che Cristo, nel Verbo, conosceva tutte le cose. Ecco l’obiezione: «Nel Vangelo, Cristo dichiara: “Quanto poi a quel giorno e a quell’ora nessuno li conosce, neanche gli angeli nel cielo, e neppure il Figlio, ma solo il Padre” (Mc 13,32). Egli quindi non conosce nel Verbo tutte le cose» (III, q. 10, a. 2). Questo passo è abbastanza famoso. Il Signore sta parlando del giorno ricapitolativo della storia, il giorno del Giudizio, il giorno del suo ritorno, e dice appunto: Quanto a quel giorno e a quell’ora nessuno li conosce… neppure il Figlio, ma solo il Padre.

Allora, alcuni autori – san Tommaso cita in particolare Ario ed Eunomio – ritenevano questa frase come la prova che Gesù non fosse in realtà il Figlio di Dio. Prima di vedere la risposta di san Tommaso, leggiamo il n. 474 del Catechismo della Chiesa Cattolica, che accenna a questa obiezione e dice: «La conoscenza umana di Cristo, per la sua unione alla Sapienza divina nella Persona del Verbo incarnato, fruiva in pienezza della scienza dei disegni eterni che egli era venuto a rivelare [che è un altro modo per dire che Cristo nel Verbo conosceva tutte le cose]. Ciò che in questo campo dice di ignorare [il riferimento è proprio a Mc 13,32], dichiara altrove di non avere la missione di rivelarlo». E qui il riferimento è agli Atti degli Apostoli (1,7), dove nostro Signore, agli Apostoli che chiedevano se era venuto il momento di instaurare il Regno, risponde: «Non spetta a voi conoscere i tempi e i momenti…».

Allora, san Tommaso dà una risposta che è in sostanza sulla linea di quella del Catechismo: «Ario ed Eunomio riferivano quelle parole non alla scienza dell’anima che non ammettevano in Cristo, ma alla scienza divina del Figlio, che dicevano inferiore al Padre nella scienza. Il che è inammissibile. Poiché “per mezzo del Verbo di Dio sono state create tutte le cose”, afferma il Vangelo, e tra le altre sono stati fatti per mezzo di Lui anche tutti i tempi. Ora, nulla Egli può aver fatto senza averne conoscenza» (ibidem). Detto questo, vediamo come si può e si deve comprendere il passaggio del Vangelo di Marco, che sembrerebbe invece affermare il contrario. «Dice dunque di non sapere il giorno e l’ora del giudizio, nel senso che non voleva farlo sapere: interrogato infatti dagli Apostoli su questo, si rifiutò di rivelarlo» (ibidem). E qui san Tommaso si riferisce, come il Catechismo, al cap. 1 degli Atti degli Apostoli. Dunque, quell’affermazione “nessuno li conosce” indica in realtà “non ve lo voglio far sapere”, “non spetta a voi saperlo”. E a suffragio di quest’affermazione san Tommaso continua: «Come in senso contrario si legge nella Genesi (22,12): “Ora so che tu temi Dio”, cioè “ora l’ho fatto conoscere”. Dice dunque che il Padre lo sa proprio perché ha comunicato al Figlio tale conoscenza, per cui la stessa precisazione “eccetto il Padre” fa capire che il Figlio conosce non solo con la natura divina ma anche con quella umana. Poiché, come argomenta il Crisostomo, “se a Cristo uomo fu dato di sapere il più, cioè come dovesse giudicare, a più forte ragione gli fu dato di conoscere il meno, cioè il tempo del giudizio”» (ibidem).

Vediamo di mettere in fila questo ragionamento. San Tommaso dice: c’è un passo nel libro della Genesi, in chiusura della grande prova di Abramo a cui viene chiesto di sacrificare il figlio (Abramo stende la mano contro il figlio ma viene fermato da un angelo), in cui c’è questa frase pronunciata da Dio stesso: «Ora so che tu temi Dio». San Tommaso dice: non è che Dio sa solo da quel momento; evidentemente Dio sapeva, non aveva bisogno della prova, perché Dio conosce i futuri contingenti; pur non condizionando, pur non togliendoci la libertà, sa come ci determiniamo nelle nostre scelte. Dunque, “ora so che tu temi Dio” significa, come dice san Tommaso sulla scorta di sant’Agostino, “ora l’ho fatto conoscere”. Cioè, ora è chiaro che tu temi Dio, non nel senso che Dio abbia appreso qualcosa dal fatto che Abramo non abbia rifiutato di sacrificare il figlio. “Ora so” in realtà vuol dire “ora l’ho fatto conoscere”. Il testo di san Marco va letto in questa logica, cioè non nel senso che il Figlio non sapesse, ma nel senso che non era da far conoscere, come poi di fatto, nel cap. 1 degli Atti degli Apostoli, il Signore dirà esplicitamente ai suoi: «Non spetta a voi conoscere i tempi e i momenti».

Una precisazione di metodo. Bisogna fare grande attenzione a prendere frasi estrapolate dalle Scritture: bisogna leggerle nel contesto delle Scritture stesse e delle verità della fede. Attenzione a non fare questo errore.

San Giovanni Crisostomo inoltre afferma: d’altra parte, se noi sappiamo dal Vangelo che Cristo è il giudice – verrà a giudicare – cioè gli «fu dato di sapere il più», ossia il fatto di giudicare, non poteva non sapere il meno, cioè quando giudicare, quando sarebbe stato il tempo del giudizio.

Questa prima parte, a cui san Tommaso dedica la quæstio 10, riguarda la scienza dei beati: nell’anima di Cristo c’era la visione beatifica, la visione di Dio. San Tommaso ci dice però che l’anima di Cristo non ebbe “solo” la conoscenza della visione beatifica, ebbe anche altre due conoscenze che sono proprie della natura umana: la prima è la conoscenza tramite le specie intelligibili che in Cristo ebbe la connotazione della scienza infusa (che fu il dono che ricevette Adamo); e l’altra la scienza acquisita.

Cosa vuol dire che ebbe la scienza infusa? La scienza infusa è distinta sia dalla visione beatifica sia dalla scienza acquisita, cioè esperienziale. Per che cosa si distingue? La scienza infusa è la conoscenza di ogni cosa mediante le specie intellegibili. Vuol dire che in Cristo vi erano tutte le specie intellegibili, cioè, semplifichiamo molto, i concetti, le idee di ogni cosa. Dunque, Egli non solo aveva la conoscenza di tutte le cose nel Verbo, cioè riflesse dal Verbo divino, nel quale sono presenti le idee di ogni cosa: se non fossero nel Verbo, nulla esisterebbe così com’è. Non solo dunque aveva questa conoscenza, ma aveva anche la scienza infusa, quindi le idee, i concetti, le specie intellegibili di ogni cosa. San Tommaso, per farci capire, richiama il parallelo con la conoscenza angelica. Ne avevamo parlato a proposito degli angeli. Avevamo distinto tra una conoscenza mattutina e una conoscenza vespertina. Che cosa vuol dire? La conoscenza mattutina è quella conoscenza avuta dagli angeli guardando il Verbo, contemplando il Verbo; la conoscenza vespertina è invece quella che loro hanno quando conoscono le cose, ognuna secondo la sua natura, mediante le specie intellegibili. Dunque, l’angelo conosce tutta la virtualità, la potenzialità di un’erba o di una pietra mediante l’infusione delle specie intelligibili. Dunque, non con una conoscenza esperienziale, ma con una conoscenza che potremmo definire a priori.

Ora, san Tommaso ci dice che in Cristo abbiamo qualche cosa di analogo. Cioè, oltre alla scienza divina, increata ovviamente, in quanto Verbo, riguardo alla natura umana abbiamo la scienza dei beati – con la quale conosce il Verbo, al quale è unita ipostaticamente e, nel Verbo, conosce tutte le cose – ma anche la scienza infusa, con la quale Egli conosce le cose nella loro natura per mezzo di specie intellegibili proporzionate alla mente umana. Questa scienza infusa era quella che aveva Adamo. Ad Adamo, ai progenitori, era stata concessa questa scienza di tutte le cose, non per via esperienziale, ma mediante l’infusione nel proprio intelletto delle specie intellegibili, cioè della natura di ogni cosa, della potenzialità racchiusa nella natura di ogni cosa, le sue caratteristiche proprie.

Nella quæstio 9 san Tommaso presenta le tre conoscenze, cioè la scienza dei beati, la scienza infusa e la scienza acquisita. Poi, a ognuna di esse, dedica una quæstio a parte: la q. 10 alla visione beatifica, la q. 11 alla scienza infusa, la q. 12 alla scienza acquisita.

Dunque, nella q. 11 san Tommaso spiega: «Con tale scienza l’anima di Cristo conobbe in primo luogo tutte le cose che l’uomo può conoscere con il lume dell’intelletto agente, quali sono tutte le verità delle scienze umane» (III, q. 11, a. 1). Così andiamo a capire cosa sono queste specie intelligibili. Tutto quello che l’uomo può conoscere mediante la scienza umana, Cristo lo ebbe grazie alla scienza infusa.

«Poi, con la medesima scienza [infusa] Cristo conobbe tutte le cose che sono note agli uomini per rivelazione divina, o mediante il dono della sapienza o mediante quello della profezia o mediante qualunque altro dono dello Spirito Santo. Infatti tutte queste cose Cristo le conosceva più e meglio di tutti gli altri. L’essenza di Dio invece non la conosceva con la scienza infusa, ma solo con la scienza beata» (ibidem). È importante capire che questa conoscenza di Cristo era un habitus, qualcosa che aveva ricevuto in modo stabile e di cui poteva servirsi quando voleva: evidentemente, non per un capriccio, ma secondo quella sapienza presente in Cristo, la prudenza, il bene effettivo. Ma era appunto un habitus presente in Lui, al quale poteva attingere secondo la sua sapienza, secondo la volontà del Padre.

È importante capire che per noi uomini la conoscenza umana, le scienze di cui parlava san Tommaso, le scienze umane – che non sono le scienze sperimentali o, meglio, è anche ciò a cui arrivano le scienze sperimentali, ma la scienza infusa non è per via sperimentale, evidentemente, altrimenti non sarebbe infusa – sono una via verso la visione beatifica. Cioè, il nostro intelletto è fatto per aprirsi al vero e sfociare nella conoscenza del Vero, cioè Dio stesso. Per nostro Signore è il contrario: la scienza infusa non è una via verso la visione beatifica che era già presente in Cristo, ma è una sorta di ridondanza della visione beatifica. Come a dire che è la visione beatifica che, sovrabbondando, ridondando nell’anima di Cristo, dà a Lui anche la scienza infusa.

Terzo aspetto, terza conoscenza presente nell’anima di Cristo è la scienza acquisita. Il Vangelo ci dice che il Signore «crebbe in sapienza, età e grazia» (Lc 2,52), così come Ebrei 5,8 ci dice che «imparò l’obbedienza dalle cose che patì». Sono due testi che inequivocabilmente ci dicono che c’è una scienza acquisita, c’è qualcosa che il Signore impara, per così dire. Ora, la scienza acquisita non è altro che la conoscenza del concreto, ciò di cui abbiamo una conoscenza concreta, da cui noi poi – nel nostro modo di conoscere – estraiamo le specie intellegibili. Per questo san Tommaso riconosce di aver sbagliato quando, in un’opera più giovanile, cioè il Commento alle Sentenze di Pietro Lombardo, ritenne che invece il Signore non avesse questa conoscenza, per cui bastasse la visione beatifica e la scienza infusa. In realtà, poi san Tommaso dice no. Perché? Perché, come spiega nell’art. 4 della quæstio 9, la conoscenza acquisita, la conoscenza del concreto, del singolare, è connaturale alla natura umana. Detto in altre parole, san Tommaso ci dice: se è vero, com’è vero, che la natura umana assunta da Cristo è integra, allora non può mancare di una conoscenza che è connaturale a questa natura, perché sarebbe altrimenti una natura non integra. Quindi, anche Cristo, in modo perfetto, ha acquisito delle conoscenze dal punto di vista esperienziale. Uno potrebbe dire: com’è possibile che una conoscenza perfetta vada di pari passo con una conoscenza che si acquisisce? O è perfetta oppure si acquisisce. In realtà san Tommaso spiega che non è così: ogni cosa infatti è perfetta secondo il suo genere. Dunque, la visione beatifica è perfetta nella sua intensità e nel fatto che in Cristo non è mai mancata, una volta assunta la natura umana, c’è sempre stata. La scienza infusa è perfetta perché sono presenti nell’intelletto di Cristo tutte le specie intelligibili, come fu per Adamo. Ma la conoscenza acquisita, per sua natura, è acquisita e dunque la sua perfezione sta nel fatto che in Cristo progredisca, perché se la scienza acquisita è per definizione ciò che si acquisisce, quindi ciò che progredisce, allora non è che la sua perfezione sta nel non progredire: sarebbe la negazione della scienza acquisita. La sua perfezione sta invece nel fatto che Cristo ha perfettamente acquisito questa scienza, ha progredito in questa scienza e dunque conobbe perfettamente tutte le cose che la sua esperienza gli fece conoscere.

Se è chiaro questo, si comprende anche in che senso debba essere interpretato l’art. 3 della quæstio 12, che si chiede se Cristo abbia imparato qualcosa dagli uomini. La risposta è negativa, perché in qualche modo, avendo la scienza beatifica, la scienza infusa e una scienza acquisita perfetta, non ha dovuto imparare. Tuttavia, questo articolo sembrerebbe escludere, per esempio, che Cristo abbia potuto apprendere il lavoro di artigiano, di falegname dal padre; oppure che Cristo non avesse imparato la lingua nativa, la lingua aramaica da sua madre: è così o non è così? Questo articolo sembrerebbe escluderlo. In realtà, se si legge bene, noi vediamo che in questo articolo san Tommaso parla della conoscenza di Cristo in quanto capo della Chiesa. Infatti, lui dice proprio questo nell’art. 3 della q. 12: «Cristo fu costituito capo della Chiesa, anzi di tutti gli uomini, affinché tutti gli uomini ricevessero per mezzo di lui non solo la grazia ma anche la dottrina della verità» (III, q. 12, a. 3).

Detto in altri termini, torniamo all’inizio di questa catechesi. Quando noi guardiamo la persona di Cristo, in questa prospettiva, abbiamo visto la sua grazia in quanto capo, in quanto fluisce sul corpo; stiamo guardando la sua conoscenza, in quanto essa fluisce nel corpo, cioè tutto quello che è in Cristo viene partecipato dalle sue membra. È per questo che in Cristo deve esserci la pienezza di grazia e la pienezza di verità, con la visione beatifica, la scienza infusa e la scienza acquisita.

Però, quando parliamo dell’apprendimento di un mestiere o di una lingua, in realtà noi non ci stiamo riferendo a Cristo capo della Chiesa. Dunque, in realtà non è incompatibile con quanto afferma san Tommaso, che Cristo non abbia imparato dagli uomini, il fatto di pensare all’apprendimento di qualcosa che in realtà è contingente. Il lavoro di carpentiere e la lingua aramaica non rientrano in quella scienza di Cristo capo della Chiesa. E dunque non ripugna con quanto abbiamo detto finora pensare, ritenere, affermare un apprendimento di cose contingenti da parte di Cristo, che appunto le ha apprese dai suoi genitori. Se invece diciamo, come a volte fa qualcuno, che Cristo abbia imparato la verità su Dio, la verità sull’uomo dai genitori o dai dottori del Tempio, la risposta è no, perché in Cristo c’erano la visione beatifica, la scienza infusa e la perfezione della scienza acquisita.

Questa catechesi, un po’ tecnica, ci permette di entrare nel mondo della persona di Cristo, in particolare della sua conoscenza. La prossima volta andremo a vedere l’altra grande facoltà presente in Cristo: la sua volontà. E poi vedremo qualche cosa relativa alle caratteristiche della corporeità di Cristo.



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