La grazia di Cristo – Il testo del video
In virtù dell’unione ipostatica, in Cristo c’è la pienezza della grazia e della verità, che Lui riversa sulle membra del suo corpo mistico. Perciò solo in Cristo c’è salvezza. Intensità e virtualità della grazia. La perfezione del timore di Dio.
Proseguiamo le nostre lezioni sul mistero di Cristo. Le scorse volte (vedi qui, qui, qui e qui) abbiamo cercato di vedere com’è stato gradualmente precisato nei secoli, attraverso l’approfondimento teologico – spesso suscitato da tensioni interne alla Chiesa, vere e proprie eresie –, il grande mistero dell’Incarnazione del Verbo di Dio, il mistero dell’unione ipostatica.
Oggi ci focalizziamo su un aspetto importante che discende da questo mistero: il tema della grazia di Cristo. San Tommaso d’Aquino vi dedica due lunghe questioni, la settima e l’ottava della terza parte della Summa. E si chiede se Cristo abbia avuto la grazia in quanto uomo, interrogandosi sulla “qualità” di questa grazia; nella questione successiva, l’ottava, tratta la grazia di Cristo non solo come singolo ma come capo della Chiesa.
Facciamo una prima precisazione per capire di che cosa stiamo parlando. Da un lato abbiamo la grazia di Cristo, della persona di Cristo; dall’altra parte, abbiamo la grazia di Cristo in quanto capo del corpo mistico, capo della Chiesa. San Tommaso, nella quæstio 8, fa notare che tre tipi di grazia, cioè la grazia dell’unione, la grazia capitale e quella personale, si identificano essenzialmente sebbene si distinguano concettualmente. È un concetto importantissimo, che ora spiegheremo. Prima di tutto, cosa intendiamo con grazia di unione, grazia personale e grazia capitale?
La grazia di unione, come dice la parola, è quell’influsso della grazia sulla natura umana di Cristo in virtù dell’unione di questa natura umana alla persona del Verbo. Potremmo dire che è una grazia unica che nessuna creatura potrà mai raggiungere, perché è una grazia specifica di quella natura umana che è stata assunta dalla persona del Verbo e unita ipostaticamente al Verbo. Cioè, questo tipo di unione è unica ed esclusiva di Cristo: nessun’altra creatura è unita ipostaticamente a una delle persone della Santissima Trinità. Quindi, questa grazia di unione è caratteristica specifica, unica di Cristo. Ed è anche il principio di quella grazia che ha fruttificato nella vita del Signore e di quella grazia che si diffonde su tutte le membra del corpo mistico.
Abbiamo poi la grazia personale. Che cos’è la grazia personale? È quella grazia, e ciò vale per ognuno di noi, che abilita a compiere atti meritori, che vivifica la nostra anima, le nostre facoltà e le rende capaci non solo di compiere atti umanamente sani (la grazia che risana la natura), ma anche di dare a questi atti umani un valore “infinito”, per certi versi, o comunque un valore soprannaturale perché questi atti vengono animati, ispirati, accompagnati, compiuti dalla grazia di Dio che lavora in noi e con noi. Vi rimando alle lezioni che abbiamo fatto su questa meravigliosa sintonia e cooperazione tra la grazia e la libera volontà dell’uomo.
Dunque, la grazia personale di Gesù Cristo è appunto la grazia che in Gesù Cristo, vero uomo, gli ha fatto compiere tante azioni meritorie, dal valore infinitamente meritorio, questa volta in senso stretto, perché si tratta di atti del Verbo divino. Ricordiamo che l’affermazione della natura umana di Cristo – chiaramente unita alla sua natura divina – non deve distoglierci dal fatto che si tratta della natura umana del Verbo: la persona è una sola.
Poi abbiamo la grazia capitale. Che cos’è? È la grazia di Cristo in quanto capo, cioè non in quanto uomo singolare, ma in quanto capo della Chiesa. Ricordiamo i passi di san Paolo in cui si dice che Cristo è il primogenito, chiaramente non in ordine temporale, perché il Signore è nato in un certo tempo, l’umanità c’era già da secoli; è il primogenito invece di una nuova stirpe che ha in Lui il suo principio, il suo capo. Avremo modo di approfondire questo aspetto. Intanto possiamo dire che questa grazia capitale non è un’altra [rispetto alle altre due], cioè non sono tre grazie separate. È in fondo l’unica grazia vista sotto tre aspetti, tre differenze concettuali. Dunque, anche la grazia capitale, che in sostanza fluisce dal capo verso le membra, è la grazia di unione, è la grazia personale che trabocca sovrabbondantemente per la salvezza degli uomini.
Ora, in questa visione ampia cogliamo il senso dell’affermazione che san Giovanni fa nel prologo del suo Vangelo (1,14), quando dice che Cristo è «pieno di grazia e di verità». Questa pienezza della grazia e della verità è in Lui in virtù dell’unione ipostatica, ed è da Lui riversata a tutte le membra, al punto che possiamo dire che questa pienezza di grazia e di verità non è un tesoro esclusivo di Cristo. Cerchiamo di capire in che senso. Nel senso che, pur essendo una caratteristica sua – l’unione ipostatica è esclusivamente del Verbo incarnato –, tuttavia non dobbiamo pensare che sia una sorta di privilegio speciale da tenere per sé; è un privilegio destinato al bene di tutti gli uomini e anche, come avremo modo di vedere, degli angeli.
Nella quæstio 7, all’art. 9, san Tommaso afferma appunto che Cristo aveva la pienezza della grazia. E l’aveva sotto due aspetti. Il primo aspetto è quello dell’intensità della grazia. Il secondo è quello della virtualità della grazia. Leggiamo quel che scrive san Tommaso sull’intensità della grazia: «Cristo l’aveva nel grado sommo e nel modo più perfetto in cui la si può avere. E ciò si spiega innanzitutto per l’intimità tra l’anima di Cristo e la fonte della grazia. Si è detto infatti [qui rimanda all’art. 1] che quanto più un essere è recettivo e vicino alla causa influente tanto più ne riceve. Così dunque l’anima di Cristo, che è unita a Dio più intimamente di tutte le creature razionali, riceve da Lui la massima effusione di grazia» (III, q. 7, a. 9). «Secondo, in rapporto all’effetto. Perché l’anima di Cristo riceveva la grazia con il compito di farla rifluire sugli altri. Perciò occorreva che avesse la grazia al massimo grado, come il fuoco che causa il calore nelle altre cose è caldo in sommo grado» (ibidem). Qui san Tommaso ci sta dicendo che la pienezza della grazia, l’avere la grazia in sommo grado, dipende anzitutto da una ragione fontale, cioè dal fatto che l’umanità di Cristo è unita ipostaticamente alla fonte, alla persona del Verbo. Ma anche in rapporto all’effetto: cioè questa pienezza di grazia, che troviamo in Cristo, è lì per una causa finale. Qual è il fine? Il fine è quella di farla rifluire sugli altri, farla sgorgare in modo sovrabbondante anche su tutti gli altri uomini che sono e saranno uniti a Lui. Di questo parleremo la prossima volta.
San Tommaso fa l’esempio del fuoco. Il fuoco è il calore al massimo e, proprio per questo, scalda, è in grado di scaldare, di effondere il suo calore, di rendere altre cose calde. Questa è pienezza di intensità. Ma ce n’è un’altra, la cosiddetta pienezza di virtualità: «Anche riguardo alla virtualità della grazia, Egli ne ebbe la pienezza; poiché l’ebbe, per tutte le operazioni e per tutti gli effetti ad essa propri. E ciò perché la grazia venne conferita a Lui quale principio universale nei riguardi di tutti coloro che la ricevono. (…) E così la seconda pienezza della grazia in Cristo viene intesa nel senso che la sua grazia si estende a tutti i suoi effetti, che sono le virtù, i doni e altre simili cose» (ibidem). Adesso vedremo che cosa sono queste cose, su cui la grazia si espande nella persona di Cristo. Ossia, andiamo a vedere la pienezza delle virtù, la pienezza dei doni e la pienezza delle grazie gratis datæ. Questa è la conseguenza della pienezza della grazia quanto alla sua virtualità.
Cos’è la virtualità? Tutti gli effetti che la grazia provoca quando arriva in un uomo, in un vero uomo, come vero uomo è Cristo. Vediamo anzitutto l’art. 2 della quæstio 7, nel quale san Tommaso ci spiega che in Cristo c’erano tutte le virtù: «Nella seconda parte, abbiamo detto che le virtù perfezionano le potenze dell’anima, come la grazia perfeziona la sua essenza. Per cui è necessario che come le potenze dell’anima derivano dalla sua essenza, così le virtù siano come delle derivazioni della grazia» (III, q. 7, a. 2). Ricordiamo quando abbiamo parlato delle virtù e della grazia. Le virtù cosa sono? Sono il perfezionamento delle potenze dell’anima: volontà e intelletto. Cioè, il retto modo, il retto funzionamento, l’alto funzionamento delle potenze dell’anima. E più recentemente abbiamo visto anche che la grazia perfeziona l’essenza dell’anima, le dà un abito che perfeziona l’anima e la eleva. Se le potenze dell’anima sono perfezionate dalle virtù e la grazia perfeziona l’anima, allora la grazia porta con sé le virtù. Ecco perché san Tommaso dice che le virtù sono derivazioni della grazia. Ma se abbiamo visto che la grazia in Cristo è presente in modo eminente e sommo, in ragione dell’unione ipostatica, allora anche le virtù sono presenti in Cristo in modo eminente e sommo.
Quindi, in Cristo ci sono tutte le virtù. Ma con qualche eccezione: in che senso? Nel senso che in Cristo non ci sono quelle virtù che prevedono una sorta di mancanza o di imperfezione, per esempio la fede e la speranza. In Cristo non c’è la fede. Perché non c’è la fede? In che senso la fede presuppone un’imperfezione? Perché la fede presuppone che non ci sia ancora la visione di Dio. Infatti, come dice san Paolo, quando avremo la visione, la fede verrà meno, la speranza verrà meno, non verrà meno la carità: questo il passo famoso della Prima Lettera ai Corinzi.
Dunque, essendoci in Cristo la visione beatifica fin dal momento del suo concepimento, non c’è la fede, perché appunto c’è la visione. Non è che non c’è la fede perché Cristo non ha fede… ma perché c’è già il perfezionamento della fede, che è la visione. Uno potrebbe dire: “Allora non aveva il merito della fede”. No, aveva il merito dell’obbedienza della fede, nel senso che il frutto della fede sta proprio nell’obbedienza che nasce dalla fede. Non basta la fede, ma serve la fede che opera per mezzo della carità e la fede che vive l’obbedienza della fede, cioè si obbedisce a Dio come se lo si vedesse, come se lo si sentisse. Questa obbedienza in Cristo è stata perfetta, fino alla morte e alla morte di croce. Quindi in Lui c’è il merito dell’obbedienza.
Cristo non aveva nemmeno la speranza: in che senso? Di nuovo, che cos’è la speranza? La speranza del godimento della visione beatifica, il fine dell’uomo. Ma essendoci la visione di Dio, in Cristo, non c’era la speranza, ma c’era già il godimento. San Tommaso precisa però che nostro Signore ebbe speranza relativamente ad alcuni beni che ancora non erano, per così dire, accessibili, per esempio la resurrezione della carne. La resurrezione di Cristo, mentre Cristo non era ancora risorto, era oggetto di speranza. Ma la speranza della visione beatifica in Cristo non c’è, perché c’è già la sua perfezione. Non è un difetto del Signore non avere la fede e la speranza: è la sua condizione di partenza ad essere diversa dalla nostra.
Ancora, nell’art. 5 san Tommaso si domanda se Cristo avesse tutti i doni dello Spirito Santo. La risposta è affermativa. Perché? Quali sono i doni? Approfondiremo il tema quando tratteremo dello Spirito Santo, ma intanto anticipo che questi doni sono dei perfezionamenti delle potenze dell’anima, cioè rendono l’anima capace di “captare” le mozioni dello Spirito Santo. Si fa spesso questo esempio al catechismo per ragazzi: riguardo alle virtù, immaginate una persona su una barca che deve remare, deve metterci in qualche modo la sua parte in questo remare; immaginate che a un certo punto si metta una vela e che questa venga orientata in modo tale da percepire il soffio del vento: i doni lavorano in questo modo. In Cristo questi doni erano presenti in modo eccelso. E di nuovo san Tommaso sottolinea nella risposta alla seconda obiezione: «Cristo riceve e dà i doni dello Spirito Santo, non sotto il medesimo aspetto, ma li dà in quanto Dio e li riceve in quanto uomo» (III, q. 7, a. 5). Di nuovo, c’è questa idea delle due nature unite: Cristo, in quanto Dio, elargisce questi doni; in quanto uomo, li riceve. Non c’è una contraddizione perché stiamo parlando di due aspetti diversi dell’unica persona di Cristo, ma secondo le due nature.
Ed è interessante l’art. 6 che si chiede se Cristo avesse il dono del timore, il timore di Dio. Ora, la risposta è particolare, a mio avviso è molto significativa, soprattutto in un tempo in cui c’è quasi una sorta di disprezzo o almeno di indifferenza verso questo dono del timore di Dio, che viene un po’ concepito come un dono inferiore. Invece san Tommaso ci dice che «Cristo aveva il timore di Dio, non in quanto esso riguarda il male della separazione da Dio a motivo della colpa, né il male della punizione per la colpa, ma in quanto ha per oggetto l’eminenza stessa di Dio, in quanto cioè l’anima di Cristo era mossa dallo Spirito Santo a un sentimento di riverenza verso Dio» (ibidem). È un testo splendido, da incorniciare. A volte si dice, ed è un’obiezione a cui san Tommaso risponde, che “l’amore scaccia il timore”. E dunque se c’è l’amore non bisognerebbe più parlare del timore di Dio: non è così. L’amore scaccia un certo tipo di timore, che pure è buono in sé stesso e necessario nel progresso della vita di noi uomini; non era necessario invece in Cristo, ed è il timore del male, cioè il motivo, il timore della colpa – con cui si perde Dio, ci si separa da Dio – e il timore della punizione della colpa. Questo timore è buono, ma non è perfetto: questo non c’era in Cristo. Ci deve essere in noi perché noi non siamo perfetti, non ancora.
In Cristo c’era invece la perfezione del timore. Cos’è la perfezione del timore? San Tommaso spiega che è quel timore che «ha per oggetto l’eminenza stessa di Dio, in quanto cioè l’anima di Cristo era mossa dallo Spirito Santo a un sentimento di riverenza verso Dio»; e in questo, ci dice san Tommaso, il Signore aveva la pienezza del timore. Cioè, avendo la visione beatifica, la visione dell’essenza di Dio, il Signore aveva il senso di Dio; la sua natura umana era mossa, grazie a questo dono, a una speciale, perfetta, insuperabile riverenza verso Dio.
Dunque, la riverenza verso Dio, avere questo senso di Dio, della sua divinità, della sua eminenza, è qualche cosa che ha caratterizzato l’anima di nostro Signore, che pure è Dio. Capiamo quindi l’importanza di riscoprire questo dono del timore di Dio, che spesso è stato malcompreso, bistrattato, liquidato con superficiale e forse precipitosa frettolosità.
Ancora, san Tommaso ci dice che Cristo aveva tutte le grazie gratis datæ. Ricordo che ho dedicato una lezione alle grazie gratis datae, che si differenziano dalla grazia abituale, dalla grazia santificante. Le grazie gratis datæ sono quelle grazie date per la manifestazione, la conferma della fede: la profezia, il miracolo, eccetera. E san Tommaso ci dice che anche le grazie gratis datæ sono presenti in pienezza nell’umanità di Cristo, sebbene non le abbia esercitate tutte; per esempio, Cristo non ha esercitato il dono delle lingue, che invece ha dato agli apostoli. Di nuovo, la pienezza della grazia di Cristo, quanto all’intensità, e la pienezza di questa grazia quanto alla virtualità, cioè quanto alle virtù, ai doni dello Spirito Santo, alle grazie gratis datæ, costituiscono Cristo – questo è il punto d’arrivo di questa catechesi e il punto di partenza della prossima – e fanno sì che nostro Signore sia il principio di tutta la grazia.
Così come Dio, dice san Tommaso, è il principio di tutto l’essere, così Gesù Cristo è il principio di tutta la grazia, perché la sua natura umana, unita alla natura divina, è unita ipostaticamente al Verbo, riceve la pienezza di questa grazia. E tutti coloro che sono in Cristo ricevono, da questa pienezza, la propria misura della grazia, delle virtù, dei doni ed eventualmente delle grazie gratis datæ. E questo è un modo per dire, se prendiamo l’altro lato della medaglia, che non c’è grazia al di fuori di Cristo. Affermare la grazia di Cristo e la grazia di Cristo in quanto capo, come vedremo la prossima volta, significa affermare che in Cristo c’è la pienezza della grazia e al di fuori di Cristo non c’è la grazia. Le altre mediazioni, vedremo, esistono, ma sono subordinate a Cristo, dipendono da Cristo.
Parlando dell’unione ipostatica, avevamo detto di Cristo che fa da “ponte”, e ora vediamo, sempre in virtù dell’unione ipostatica, che Cristo che fa da serbatoio universale della grazia. Così si capisce perché solo in Cristo c’è la salvezza. Non è concepibile che la salvezza esista fuori di Cristo. Perché? Perché solo in Cristo dimora la pienezza della grazia. E perché solo in Cristo dimora la pienezza della grazia? Perché solo in Cristo abbiamo l’unione ipostatica, abbiamo l’unione della natura umana e della natura divina nell’unica persona del Verbo.
Quindi, è un mistero splendido, che ha delle conseguenze importanti. La prossima volta vedremo il legame che è necessario avere con Cristo per poter ricevere questa grazia e questa salvezza.
La grazia di Cristo
In virtù dell’unione ipostatica, in Cristo c’è la pienezza della grazia e della verità, che Lui riversa sulle membra del suo corpo mistico. Perciò solo in Cristo c’è salvezza. Intensità e virtualità della grazia. La perfezione del timore di Dio.
L’unione ipostatica (II parte) – Il testo del video
Al Concilio di Calcedonia (451) si condannò il monofisismo, che riteneva che in Cristo fosse presente una sola natura. Un’eresia evolutasi in forme simili nei secoli successivi. Gli errori cristologici odierni e i chiarimenti della CDF nel 1972 e, con la Dominus Iesus, nel 2000.
L’unione ipostatica – Il testo del video
Al cuore del mistero dell’Incarnazione c’è l’unione delle due nature, divina e umana, nell’unica persona di Cristo. La dottrina sull’unione ipostatica nei primi concili ecumenici, da Nicea a Efeso, e le eresie confutate.