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Ora di dottrina / 134 – La trascrizione

L’unione ipostatica – Il testo del video

Al cuore del mistero dell’Incarnazione c’è l’unione delle due nature, divina e umana, nell’unica persona di Cristo. La dottrina sull’unione ipostatica nei primi concili ecumenici, da Nicea a Efeso, e le eresie confutate.

Catechismo 20_10_2024

Proseguiamo le nostre catechesi, indagando il mistero di Cristo (vedi qui e qui), il mistero della cosiddetta “unione ipostatica” che vede le nozze tra la natura divina e la natura umana nella persona del Verbo incarnato.

L’altra volta abbiamo fatto una sintesi della dottrina sulla Santissima Trinità. Oggi vediamo invece l’altro grande pilastro della fede cattolica che riguarda appunto il mistero dell’Incarnazione del Figlio di Dio. Non mi addentro nei testi che san Tommaso d’Aquino dedica a questo tema nella terza parte della Summa, perché sono testi un po’ tecnici. Cercherò di riassumere la presentazione che egli fa della dottrina cattolica in un modo che, spero, sia un po’ più didattico: andremo cioè a vedere come si è precisata ed espressa la dottrina sull’unione ipostatica, nel corso soprattutto dei primi concili della Chiesa che hanno affrontato la questione, in modo anche molto “bellico”. Scegliamo un taglio un po’ storico e teologico, cercando di semplificare il più possibile, perché si tratta di una catechesi. Richiameremo alcuni concili, come già fatto in alcuni articoli dei supplementi della domenica dedicati alle crisi nella storia della Chiesa: cercherò di indicarveli così da approfondire un po’ meglio il lato storico della questione e avere così una visione d’insieme.

Dunque, la precisazione del dogma relativamente al mistero dell’Incarnazione si può riassumere nell’espressione delle due nature, divina e umana, distinte, ma non separate, in quanto unite nell’unica persona, che è il Verbo divino. Detto in altro modo: in Cristo non abbiamo una persona umana, ma abbiamo un vero uomo e nel contempo un vero Dio, perché l’unico suppositum delle due nature, divina e umana, è la persona del Verbo incarnato. Questa è la coordinata che ci permette di capire che cosa è accaduto nella storia della Chiesa riguardo a questo mistero, le separazioni che ci sono state, gli errori che sono emersi, purtroppo, su questo dogma così importante. È importantissimo capire che non si tratta solo di una questione speculativa, di speculazioni opposte di fronte alle quali – come diremmo oggi – bisognerebbe avere un atteggiamento più irenico, più ecumenico, per cui se uno dice una cosa differente non è un problema; e neanche si tratta di modi diversi di esprimere un mistero che “sorpassa” tutti e perciò ogni formulazione risulterebbe nel contempo vera, anche se non del tutto adeguata. Ormai c’è molto questo linguaggio nell’ambito teologico ed ecumenico, nel senso di un falso ecumenismo, perché evidentemente c’è anche un buon ecumenismo.

Invece, la consapevolezza dei Padri, della Chiesa cattolica, è sempre stata quella di spiegare che la dottrina ha delle ricadute molto concrete. E dunque non si tratta di patteggiare un punto comune che metta tutti d’accordo, ma che in fondo non colga la verità. Si tratta invece di cogliere la verità, perché da quella verità dipendono tante cose, che magari lì per lì non si vedono, ma che nel tempo mostrano le loro conseguenze.

Bisogna tenere presenti due princìpi cardine per capire l’importanza della questione e perché si è lottato anche su questi temi, che ai nostri occhi molto superficiali tante volte possono sembrare quisquilie, come se si fosse litigato per un nulla.

Il primo principio è che, nel comprendere il mistero dell’unione ipostatica, c’è in gioco il mistero di Cristo Redentore. E la Redenzione è legata, come dice la Lettera agli Ebrei, a Cristo vero pontefice. Se Cristo non fosse il vero pontefice, noi non saremmo salvi, non avremmo possibilità di salvezza. Pontefice non è solamente un titolo onorifico, una professione sacra: pontefice, riferito a Cristo, indica strutturalmente chi è Cristo: è Colui che fa da ponte tra Dio e l’uomo. E per fare da ponte tra Dio e l’uomo, è fondamentale che Egli abbia le due nature nella loro verità, nella loro integrità, senza che queste due nature siano giustapposte l’una all’altra e quindi sostanzialmente separate, ma siano unite. E come fanno a essere unite senza essere confuse? Appunto perché sono due nature dell’unica persona.

L’altra grande idea – un punto fondamentale della fede – è che ciò che non è assunto non è salvato. La salvezza non è qualcosa di estrinseco, non è un decreto che Dio stabilisce come un imperatore, tipo il pollice in su o in giù, che decreta se sei salvo o se sei morto. Non è qualcosa di esterno. La salvezza è qualcosa che realmente ha a che fare con la nostra natura e con un cambiamento reale. Dunque, il principio fondamentale è proprio questo: noi veniamo salvati, abbiamo la possibilità della salvezza, cui possiamo aderire o no, perché la nostra condizione umana è stata realmente, integralmente assunta dal Verbo. Se non fosse stata veramente assunta dal Verbo, o se una parte di essa non fosse stata assunta, allora noi non saremmo salvati come uomini, non potremmo essere salvati come uomini.

Teniamo sullo sfondo questo aspetto, perché così si capisce la chiarezza nell’esposizione, nell’insegnamento, nella difesa della retta dottrina. Non è questione ideologica, non sono idee che si contrappongono ad altre idee, ma sono idee che esprimono, nascono dalla persona reale, concreta di Cristo, del Verbo incarnato: è da questa persona, solo da Lui, che scaturisce la nostra salvezza. Dunque, c’è un’importanza teoretica che è fortemente legata a un’importanza esistenziale, salvifica.

Qual è stato il primo concilio che ha affrontato questa questione? Il primo concilio ecumenico della Chiesa è quello di Nicea, nel 325. In questo concilio si affronta un’eresia terribilmente diffusa e che si diffonderà paradossalmente ancora di più dopo questo stesso concilio: l’arianesimo. A Nicea si afferma la vera divinità di Cristo, affermando la sua consustanzialità al Padre. Nel Credo latino diciamo consubstantialem Patri; il termine greco è homoousion, cioè “della stessa sostanza” del Padre. Questo termine ha fatto scoppiare un putiferio, perché da molti venne frainteso, e fece nascere una metamorfosi dell’arianesimo (che pure continuò a persistere) e cioè il semi-arianesimo: dunque, dopo il Concilio di Nicea c’erano due correnti eretiche, non più una sola. Vi rimando all’articolo per approfondire questa questione.

Il Padre e il Figlio non hanno semplicemente la stessa natura divina. Questo potremmo dirlo di me e di voi: cioè, se siamo uomini vuol dire che abbiamo la stessa natura umana. Padre e Figlio non hanno solo la stessa natura divina, ma sono la stessa natura divina. E questo noi non lo possiamo dire di noi uomini: non posso dire che “io sono la natura umana”, come se esaurissi in me la natura umana; io ho la natura umana, non sono la natura umana.

Invece, l’affermazione della consustanzialità indica che il Padre e il Figlio – la precisazione dogmatica sullo Spirito Santo sarebbe arrivata più tardi, a Nicea resta un po’ sullo sfondo – sono la stessa natura divina, cioè sono una sola cosa, una sola sostanza, un solo Dio. Non due dèi, ma un solo Dio. Questo è diverso rispetto a quello che noi possiamo predicare dell’uomo. Quando parliamo degli uomini, diciamo che hanno la stessa natura, ma non diciamo che sono la stessa natura e sono una sola cosa. Per il Padre e il Figlio invece abbiamo questa affermazione importantissima, cioè l’essere della stessa sostanza: e dunque la distinzione tra i due non è una distinzione tra due sostanze diverse, anche se hanno la stessa natura, ma è una distinzione – come visto la scorsa volta – di relazione. Il Padre è Colui che genera, il Figlio è generato. Ma il Padre e il Figlio sono Dio, e dunque sono eterni, onnipotenti, onniscienti, eccetera.

Se così non fosse, cosa dovremmo concludere? Che Cristo non sarebbe vero Dio, evidentemente, perché Dio è infinito, è l’essere stesso, è Colui al quale non si può aggiungere alcuna perfezione. Se dunque io non avessi affermato la stessa sostanza del Padre e del Figlio, ma due sostanze diverse, io dovrei dire che quindi avremmo due divinità? Sì e no. Essendo Dio perfettissimo, ciò che lo distingue da Lui, se non è una pura relazione di opposizione, ma altro, vuol dire che è altro rispetto alla perfezione di Dio. Ma non puoi avere altro rispetto alla perfezione divina ed essere Dio: se hai altro vuol dire che sei creatura. Ripeto: se non si affermasse la consustanzialità, cioè che il Figlio ha la stessa sostanza divina del Padre, vorrebbe dire che il Figlio si distinguerebbe dal Padre in qualche cosa che non è la “semplice” relazione (generante e generato), ma altro. Ora, non c’è alcuna perfezione che può essere aggiunta in Dio, quindi non possiamo avere due dèi, di cui uno è più perfetto dell’altro… è assurdo. Allora dovrei dire che questa distinzione nasce dal fatto che il Figlio non ha qualcosa che ha il Padre: ma se il Figlio non ha qualcosa che ha il Padre, non è onnipotente come il Padre perché dire che è “un po’ meno onnipotente” vorrebbe dire che non è onnipotente; non è onnisciente come il Padre, non è eterno come il Padre… vorrebbe dire per forza che è una creatura.

Ma se è una creatura, allora salta il grande caposaldo che abbiamo detto all’inizio: non può fare da pontefice. Perché? Perché sarebbe una straordinaria creatura, ma non sarebbe Dio. Immaginiamo un ponte dove la sponda sul versante dell’umanità è perfetta, ma l’arco del ponte non ha un appoggio sull’altra sponda, quella della divinità. Cosa succede così? Che il ponte non sta in piedi. Verrebbe meno così la verità di Cristo come pontefice e vero mediatore tra Dio e gli uomini.

L’importanza del Concilio di Nicea I sta dunque nell’affermazione della divinità di Cristo, in quanto della stessa sostanza del Padre.

Dopo aver affermato questo principio, con tutto il dibattito, le problematiche nell’interpretazione di questo termine, homoousion, cioè “della stessa sostanza”, che per alcuni era invece una sorta di negazione della diversità del Figlio, abbiamo un altro passaggio da fare. Spesso, se non sempre, la storia della Chiesa, che è la storia degli esseri umani, è una storia di pendoli che oscillano da una parte e subito dopo dalla parte opposta. L’affermazione della vera, effettiva divinità del Figlio, consustanziale al Padre, l’enfasi su questa verità, un’enfasi unilaterale, portò a una nuova eresia, che fa capo ad Apollinare, da cui il termine “apollinarismo”. Qual è il problema?

Apollinare affermava la fede nicena del Cristo vero Dio come il Padre, ma dimenticava l’altro aspetto che deve essere affermato insieme. L’eresia è sempre l’affermazione di una parte a discapito di un’altra, non c’è mai l’eresia come errore su tutto, questo è importante capirlo. Tante volte si dice: “Eh, ma dice tante cose vere...”. Ma se ne afferma una falsa, nella teoria e nella pratica, allora non possiamo dire che è tutto buono, perché il bene viene ex integra causa, cioè il bene è dato proprio dal bene di tutte le sue parti, non solo di alcune.

In questo caso, c’è un classico esempio di ciò: Apollinare, che pure sottolineava che il Figlio è vero Dio come il Padre, non affermava però che è vero uomo come la Madre, Maria Santissima, da cui è nato, da cui ha preso la natura umana. Ora, secondo Apollinare, il Verbo, vero Dio come il Padre, aveva assunto un corpo umano, una sorta di rivestimento, per mostrare la sua divinità in un corpo umano, ma non aveva assunto una vera natura umana. Perché? L’uomo non è solo un corpo, non è solo un’anima, l’uomo è l’unione dell’anima umana che diventa forma del corpo e i due formano l’unica persona umana, la singola persona. Se dunque io, quasi per salvaguardare la divinità, non metterla troppo in contatto con l’umanità, affermo che questa divinità ha preso semplicemente un rivestimento corporeo, ma non ha assunto in sé, unendola nell’unica persona divina, la natura umana, allora sto dicendo sostanzialmente che Gesù Cristo non è veramente uomo. Dico che è veramente Dio, come voleva il Concilio di Nicea, ma nego che sia veramente uomo, perché – ripeto – il corpo non è l’uomo.

Per Apollinare bastava in qualche modo la divinità a vivificare questo corpo, che ne era il rivestimento, non c’era bisogno di un’anima umana. Era sufficiente la divinità che veniva in qualche modo ad animare questo corpo, questo rivestimento. Ma qual è l’enorme problema di questa impostazione errata? Uno potrebbe dire: come se l’è inventata Apollinare? Come sempre, tutte le eresie trovano il loro appoggio nelle Sacre Scritture o in qualche scritto dei Padri; non c’è nessun eretico che inventa dal nulla: l’eretico prende alcune parti, non le interpreta più con quella che è l’ermeneutica, cioè il principio interpretativo della Chiesa, ma le isola e interpreta in modo unilaterale. Questi appigli, ripeto, possono trovarsi abbondantemente nelle Sacre Scritture ma anche in qualche scritto dei singoli Padri.

E qual era l’appiglio? Pensiamo all’affermazione di san Giovanni: «Il Verbo si fece carne». Dunque, Apollinare disse: si fece carne, non si fece uomo. Quindi, un’interpretazione unilaterale o, meglio, avulsa dalla Tradizione della Chiesa, avulsa dal contesto interpretativo della Chiesa. Qual è la conseguenza evidente? Che in realtà l’uomo non è salvato perché non è stato assunto. Ricordiamo il principio fondamentale: ciò che non è assunto, non è salvato. Che cos’è la salvezza? La salvezza è entrare nella vita di Dio. Ma nella vita di Dio si entra perché si è presi e assunti, portati su. Se dunque la natura umana non è stata assunta nella sua integralità, per l’uomo non c’è salvezza. Se io dico che l’anima umana non è stata assunta – che è quello che afferma Apollinare –, vuol dire che non c’è salvezza per l’anima umana e quindi non c’è salvezza per l’uomo, perché l’uomo è uno: anima e corpo.

Il Concilio di Costantinopoli I (381), neanche sessant’anni dopo Nicea, ha dovuto quindi affrontare un’eresia che va su un altro versante rispetto a quello che era il grande tema dell’affermazione della divinità di Cristo e della confutazione dell’arianesimo in tutte le sue forme.

Esattamente cinquant’anni dopo, troviamo un altro concilio importantissimo, il Concilio di Efeso (431), che fa un’altra precisazione: è famoso per aver proclamato il dogma di Maria Santissima, Madre di Dio, Theotókos. Ma il tema, in questo concilio, non era Maria Santissima, bensì un altro.

Nel Concilio di Nicea è stata fondamentale l’affermazione della divinità di Cristo, consustanziale al Padre. Nel Concilio di Costantinopoli del 381, abbiamo l’affermazione della vera umanità di Cristo. Così sono state affermate le due nature nella loro integralità. Cristo dunque ha due nature, ma – attenzione – è uno. Non abbiamo due “cristi”, non abbiamo una separazione di queste due nature, ma abbiamo un’unione, da cui il concetto di unione ipostatica. Cristo è uno.

Ora, su questo tema esplode, già prima del Concilio di Efeso, una disputa tra due pilastri della Chiesa: uno, Nestorio, che era patriarca di Costantinopoli, cioè la sede più importante e prestigiosa dopo Roma; e dall’altra parte, san Cirillo, che era vescovo della sede patriarcale di Alessandria d’Egitto. Dunque, c’erano questi due pilastri dell’ortodossia, perché tutti e due confessavano la consustanzialità al Padre (Nicea) e tutti e due confessavano il costantinopolitano I e quindi la vera natura umana di Cristo. Erano due pilastri della fede. Eppure ci fu questo scontro, perciò possiamo immaginare la divisione, la confusione nella cristianità dell’epoca, vedendo questi due cedri del Libano che confliggevano l’uno con l’altro, ritenuti, non a torto, due pilastri dell’ortodossia, difensori della vera divinità di Cristo, della vera umanità di Cristo.

E quale fu il punto di scontro? Nestorio sosteneva che queste due vere nature erano unite tra loro, ma avevano solo – cerco di riassumere molto – un’unione estrinseca. In sostanza, per Nestorio era fondamentale affermare la separazione delle caratteristiche di queste due nature, non la distinzione. Quindi, l’unione delle due nature, per lui, era in realtà una sorta, potremmo dire, di avvicinamento, accostamento, giustapposizione. Se non fosse così, nell’ottica di Nestorio questo significherebbe o negare una delle due nature o confonderle.

Da questa sua visione venne il suo famoso rifiuto dell’espressione Theotókos, cioè Maria vera Madre di Dio. Perché? Attenzione, Nestorio fa un ragionamento che apparentemente non farebbe una piega, almeno potrebbe sembrare così. Cioè, la Madonna non ha generato la divinità: nessuno di noi affermerebbe che il Verbo, la divinità, non preesistesse a Maria Santissima. Dunque, secondo il ragionamento di Nestorio, non avendo Maria generato la divinità ma solo l’umanità di Cristo, allora noi la possiamo chiamare Christotókos, ma non Theotókos. È un ragionamento apparentemente valido, sembrerebbe quasi assolutamente logico e che tra l’altro veniva proposto in difesa, nella prospettiva di Nestorio, della divinità di Cristo.

Ma questa affermazione nasconde un’insidia non da poco; in sostanza, le due nature – umana e divina – vengono talmente separate che quasi non si può più parlare di Cristo nella sua unità, quasi che potessimo parlare di un Cristo solo uomo, nato dalla Vergine. Detto in altro modo: se io dico che la Madonna non è Madre di Dio, sto dicendo che non è Madre del Verbo. Ma se non è Madre del Verbo, allora di chi è Madre? Noi sappiamo che la natura umana di Cristo è la natura dell’unica persona, che è il Verbo. Io non posso pensare a una Madonna che partorisce, genera una natura umana senza colui a cui questa natura umana si riferisce, che è il Verbo. Detto ancora in un altro modo: il punto è che l’affermazione delle due nature – divina e umana – fatta a Nicea (325) e Costantinopoli (381), non poteva essere fatta senza affermare nel contempo l’unica persona di Cristo.

Quindi, se la persona di Cristo è il Verbo – non abbiamo una persona divina e una persona umana: abbiamo un’unica persona, che è il Verbo, con due nature – se la persona è realmente una, allora io devo poter affermare quella che tecnicamente viene chiamata la communicatio idiomatum (comunicazione degli idiomi). Che cos’è? È un’espressione tecnica, ma semplice, che vuol dire che tutto quello che appartiene in modo distinto alle due nature si afferma della persona del Verbo. Cosa vuol dire due nature distinte? L’essere eterno chiaramente è della natura divina, non è della natura umana che nasce nel tempo, ma lo affermo dell’unica persona del Verbo. Nascere nel tempo, che chiaramente lo affermo della natura umana, lo affermo dell’unica persona del Verbo. Ecco perché possiamo dire che il Verbo si è fatto carne. L’essersi fatto carne appartiene alla natura umana; ma essendo la natura umana unita a quella divina nell’unica persona, ecco allora che io posso affermare ciò che è divino e ciò che è umano dell’unica persona.

Allora, in pratica noi possiamo dire che il Verbo si è fatto carne. Così come possiamo dire che il Signore è morto in croce. Noi non stiamo dicendo che la divinità ha smesso di essere divinità quando è “morta” in croce: chiaramente il morire è ciò che appartiene alla natura umana; ma essendo la natura umana assunta dall’unica persona del Verbo, lo affermiamo del Verbo, del Signore, dell’unico Signore; se non fosse così, avremmo una divisione in Cristo, non avremmo una persona: avremmo due nature per due persone.

Ecco allora perché possiamo dire che Maria è Madre di Dio: non perché pensiamo che Maria abbia generato la divinità, come il Padre, ma perché quella natura umana che viene da Maria Santissima è la natura umana del Verbo di Dio. E dunque Maria è veramente la Madre di Dio, senza essere Dio.

La prossima volta andremo avanti con i concili successivi. Intanto comprendiamo l’importanza della posta in gioco, l’importanza anche di dedicarvi un po’ di tempo, le nostre risorse intellettive. L’intelligenza il buon Dio l’ha data a tutti, ma tante volte non ci prendiamo il tempo di svilupparla e di dedicarla ai grandi dogmi e fondamenti della fede. Vedete questa grande insidia che attraversa sempre la storia della Chiesa: non c’è un secolo, non c’è un decennio che sia stato risparmiato, cioè il pericolo di affermare una verità di fede e non tenere nello stesso tempo in conto che c’è anche l’altro lato della medaglia. Voler affermare un lato solo: questa è l’eresia. Avremo modo di vederlo ancora in un altro personaggio: Eutiche.

Spesso l’eresia non nasce da persone poco istruite, nasce da personaggi di tutto rispetto, di grande intelligenza, di grande vita ascetica, anche persone che nella loro vita hanno difeso la fede, hanno aiutato il loro popolo, hanno fatto del bene, ma, come dice san Paolo, «chi pensa di stare in piedi, guardi di non cadere» (1Cor 10,12), perché fino alla fine, fino all’ultimo respiro della nostra vita, noi siamo insidiati dal Maligno, che cerca di farci cadere. E la strategia è sempre la stessa: l’albero cade dove pende, non cade dalla parte opposta di dove pende. Per esempio, l’albero pendeva dal lato dell’affermazione della divinità di Cristo, divinità assolutamente vera, ma pendeva “troppo”, e ci si dimenticava dell’umanità. L’affermazione delle due nature, in sé assolutamente ortodossa, pendeva a discapito dell’unità della persona. E dunque il demonio ha fatto cadere sul lato dell’affermazione delle due nature senza avere più la prospettiva dell’unità. Questo è un po’ anche l’insegnamento che la storia della Chiesa ci mette davanti anche in tempi burrascosi come quelli che stiamo vivendo.

La prossima volta andremo avanti, vedendo i concili di Calcedonia, di Costantinopoli II, e gli altri, e vedremo come si è strutturato il dogma dell’unione ipostatica con tutti i suoi elementi che lo compongono.



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