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Ora di dottrina / 142 – La trascrizione

La sottomissione e la preghiera di Cristo – Il testo del video

La verità delle due nature nell’unica persona del Verbo consente di capire anche i passi più “difficili” del Vangelo. San Tommaso spiega perché Cristo, nella sua natura umana, è sottomesso al Padre. E perché prega. La verità dimenticata sulla preghiera: atto di ragione.

Catechismo 15_12_2024

Come anticipato la volta scorsa, iniziamo a dedicarci al rapporto di Cristo nei confronti del Padre. San Tommaso dedica a questo tema cinque questioni, dalla ventesima alla ventiquattresima, della III parte della Somma Teologica. Oggi vedremo le prime due.

Nella prima questione, la n. 20, troviamo il tema della sottomissione di Cristo al Padre. Un tema che sembra magari non molto attuale, relegabile alla pura conoscenza teologica, ma che in realtà ha importantissime conseguenze. Anzitutto perché san Tommaso affronta una questione importante che spesso è richiamata da chi nega la divinità di Cristo, non solo nelle eresie antiche, ma anche in quelle moderne; pensiamo a uno dei grandi cavalli di battaglia della predicazione dei Testimoni di Geova o anche al dubbio che può venire anche a noi cattolici, che magari non sappiamo bene come rispondere quando ci vengono mosse certe obiezioni.

E qual è questa obiezione? L’obiezione è che nel Vangelo di san Giovanni (14,28) c’è la famosa espressione: «Il Padre è più grande di me». Ma questa affermazione viene tolta dal contesto delle Sacre Scritture e non solo. Nelle Scritture abbiamo infatti anche un’altra affermazione: «io e il Padre siamo una cosa sola» (Gv 10,30). Ricordiamoci sempre, come metodo, che le Scritture vanno lette nel loro insieme, nell’insieme dei diversi passi biblici, ognuno dei quali chiaramente è inserito in un contesto. Diciamo questo non per relativizzare, ma per comprendere. Soprattutto, la Bibbia va letta all’interno del suo contesto interpretativo che è quello di una comunità vivente gerarchicamente ordinata che è la Chiesa cattolica, che ha un magistero.

Dunque, cosa dire a chi ci obietta che Gesù Cristo non è Dio e che lo dice anche il Vangelo («Il Padre è più grande di me»)? Se il Padre è più grande del Figlio, vuol dire che il Figlio non è Dio come il Padre. Allora, san Tommaso affronta questo tema nell’art. 1 della quæstio 20. E nel sed contra, l’affermazione centrale, dice: «Cristo dichiara: “Il Padre è più grande di me”. E sant’Agostino osserva [qui viene citato il De Trinitate]: “Non senza ragione la Scrittura dice tutte e due le cose, che il Figlio è uguale al Padre e che il Padre è più grande del Figlio. La prima cosa infatti si spiega per la forma di Dio [per la natura divina], la seconda per la forma di servo, senza alcuna confusione”» (III, q. 20, a. 1).

Che cosa ci sta dicendo qui san Tommaso? Chi ha seguito le catechesi che abbiamo dedicato alla verità delle due nature, umana e divina (vedi ad esempio qui e qui), nell’unica persona del Signore, dovrebbe avere questo concetto familiare. Noi possiamo affermare una cosa relativa alla natura divina e che quindi compete alla persona di nostro Signore, in virtù della sua natura divina, e possiamo affermarne un’altra opposta, che compete al Signore nella sua natura umana, senza contraddizione, perché è il mistero di Cristo ad esigerlo. Per esempio, noi possiamo dire che Cristo è morto in croce riferendoci alla natura umana: la natura umana è unita all’unica persona, perciò quello che diciamo della natura umana di Cristo lo possiamo attribuire alla persona del Signore; e tuttavia, evidentemente, non possiamo dire che in croce è morta la natura divina.

Quando noi leggiamo questi passi dobbiamo anzitutto tener presente che ce ne sono due che affermano due cose opposte e che la verità di entrambe si comprende solo alla luce del mistero del Verbo incarnato di cui abbiamo parlato nelle precedenti lezioni.

Dunque, san Tommaso spiega perché il Signore, nella sua natura umana, ha una sottomissione nei confronti del Padre: ci sono tre tipi di sottomissione che la natura umana ha rispetto a Dio. La prima: «Secondo il grado della bontà». Che cosa vuol dire? Vuol dire che la bontà ontologica, costitutiva della persona, noi l’abbiamo, nella natura umana, come partecipata. Ricordate quando abbiamo parlato della creazione? Vedete che pian piano le cose tornano, s’illuminano e una aiuta a comprendere più facilmente l’altra. Abbiamo detto che il termine più pregnante per spiegare la creazione è proprio quello di partecipazione: tutto ciò che esiste, di creato, tutto ciò che è, è in quanto gli viene partecipato l’essere. Per la bontà è la stessa cosa, perché l’essere e la bontà coincidono. È il famoso “ritornello” della Genesi: Dio crea, le cose prendono il loro essere e «Dio vide che era cosa buona». Vediamo quindi l’equiparazione dell’essere e della bontà.

Dunque, in quanto natura umana, creata, che inizia a esistere a un certo punto, la natura umana del Signore è sottomessa a Dio, è sottomessa al Padre nel senso che appunto ha il bene per partecipazione, ha la bontà per partecipazione.

Il secondo aspetto della sottomissione della natura umana a Dio, dice san Tommaso, è legato al potere: la natura umana è sottomessa a Dio perché Dio esercita un potere onnipotente tramite la sua Provvidenza divina (abbiamo visto anche questo quando abbiamo parlato di creazione). Dunque, sotto questo aspetto, la natura umana del Signore era soggetta alla Provvidenza divina. Dio provvedeva alla natura umana del Signore come – questo come è analogico – provvede a ciascuno di noi.

«Terzo, la natura umana è sottomessa a Dio in modo speciale per sua propria iniziativa, in quanto cioè con la sua volontà obbedisce alle leggi divine» (ibidem). E questo è il punto che ci interessa di più, quando parliamo di sottomissione: è sottomessa a Dio per la propria iniziativa, per la propria volontà, cioè la volontà con cui l’uomo obbedisce a Dio, obbedisce alle Sue leggi, obbedisce alla Sua volontà, la vuole fare. E anche sotto questo aspetto, la natura umana del Signore era sottomessa al Padre. Che cosa vuol dire? Ricordiamo quello che il Signore afferma nel Vangelo di san Giovanni (8,29): «Io faccio sempre ciò che gli è gradito», che è un po’ come la “divisa” del Signore. Lui è il servo del Padre nel senso che vuole fare sempre ciò che gli è gradito e sempre lo fa.

Nella risposta alla prima obiezione della q. 20 – che è un obiezione classica, cioè: se Gesù è Dio non può essere sottomesso al Padre, perché nella Trinità nessuno è soggetto a un altro, sarebbe un’eresia trinitaria essendo uguale e unica la natura divina – san Tommaso dice: «Come non si può dire che Cristo è una creatura senza restrizioni, ma soltanto secondo la natura umana, e questa restrizione va sottintesa anche se non è espressa [cioè, non si può dire che Cristo è una creatura e basta, perché così si va dritti verso l’eresia, invece si può dire che Cristo nella sua natura umana è creatura, cioè questa natura umana ha iniziato ad esistere, è creata], così non si può dire che Cristo sia soggetto al Padre in senso assoluto, ma secondo la natura umana, anche se la restrizione non viene fatta esplicitamente. Però è meglio esprimerla [cioè, è meglio ogni volta specificare, “secondo la natura umana”], per evitare l’errore di Ario, il quale riteneva il Figlio inferiore al Padre» (ibidem).

Bisogna evitare dunque l’errore di Ario, che evidentemente san Tommaso, molti secoli dopo, ancora temeva e che anche noi ancora oggi temiamo, anzi lo vediamo molto diffuso nonostante magari si continui a pregare il Credo. Bisogna fare molta attenzione perché questa idea, in fondo, di Cristo come vero uomo e basta, è sempre molto presente e così la sua umanità in qualche modo finisce per velare, coprire o addirittura negare la sua divinità.

Analogamente, nell’art. 2, che vediamo rapidamente, san Tommaso si chiede se Cristo sia soggetto a Sé stesso. Uno può dire: che questione è? In realtà, è molto importante perché Cristo non è soggetto solo al Padre, ma, essendo Egli stesso vero Dio e vero uomo, ha senso porsi la domanda: la sua natura umana era soggetta alla sua natura divina? Attenzione, perché possiamo intendere la questione in due modi. «Primo, nel senso che esista una seconda ipostasi o persona, come se la persona del Verbo di Dio a cui compete il dominio sia distinta da quella dell’uomo servo, il che rientra nell’eresia di Nestorio» (III, q. 20, a. 2). Abbiamo parlato del nestorianesimo sia rapidamente nell’Ora di dottrina, sia un po’ più diffusamente nei supplementi domenicali sulla storia delle crisi dottrinali nella Chiesa (vedi qui). Se io dico: Cristo è soggetto a Sé stesso, intendendo in questo modo due persone, finisco in un’eresia, perché non ci sono due persone.

«Secondo, riferendosi alla diversità delle due nature in una sola persona o ipostasi. Allora possiamo dire che egli [Gesù] secondo la natura per cui è uguale al Padre presiede e domina con il Padre, mentre secondo la natura per cui è uguale a noi è sottoposto e servo» (ibidem). Anche qui san Tommaso dice: bisogna mettere la restrizione; se noi diciamo che “Cristo è soggetto a Sé stesso, secondo la sua natura umana”, è corretto, perché la sua natura umana, com’è soggetta al Padre, è soggetta anche alla propria divinità che è uguale a quella del Padre. Dunque, è una questione che ha permesso di sviluppare una serie di tematiche molto importanti.

L’altra questione che voglio presentare oggi, la quæstio 21, è per certi versi un piccolo catechismo della preghiera, perché si occupa della preghiera di Cristo. E anche in questo caso vedremo due aspetti: uno è l’aspetto più propriamente teologico che si gioca sempre sulla vera natura umana di Cristo, ma sempre nella stessa concezione cattolica per cui questa natura è distinta da quella divina, ma non è separata come se fossero due persone; e l’altro aspetto è che proprio perché è una vera natura umana diventa esemplare per noi; quindi la preghiera di Cristo diventa esemplare per la nostra preghiera.

Partiamo dall’art. 1 della q. 21, articolo che si chiede se Cristo possa pregare. Interessante questa questione, perché c’è dietro tutto un problema teologico. Qual è questo problema teologico? San Tommaso lo spiega nel corpo dell’art. 1: «Se dunque in Cristo ci fosse un’unica volontà, cioè quella divina, in nessun modo gli si potrebbe attribuire la preghiera, perché la volontà divina è da sola capace di attuare ciò che vuole» (III, q. 21, a. 1). Questo è chiaro: se in Cristo ci fosse solo una volontà, quella divina, che senso avrebbe la preghiera? Dio non prega. «Ma poiché ci sono in lui due volontà, la divina e l’umana, e la volontà umana non è capace di realizzare da sé ciò che vuole senza il ricorso alla potenza divina, ne segue che Cristo, in quanto uomo dotato di volontà umana, può pregare» (ibidem). Qui c’è sullo sfondo l’eresia monotelita: anche in questo caso ne abbiamo parlato nei supplementi e nell’Ora di dottrina. Il monotelismo è quell’eresia promossa dal patriarca di Costantinopoli, Sergio, che poi ebbe molto seguito e che appunto sosteneva che in Cristo non ci fossero due volontà ma un’unica volontà. Trappola in cui cadde papa Onorio, anche di questo abbiamo scritto nei supplementi (vedi qui). Ma la verità è che in Cristo ci sono due volontà, perché se nella natura umana non ci fosse la volontà allora non ci sarebbe una natura umana reale: cos’è una natura umana senza una volontà umana?

Quindi, poiché in Cristo ci sono due volontà, la volontà umana di Cristo prega. È importante. San Tommaso spiega che questa preghiera ha anche delle conseguenze per noi. Anzitutto è un’attestazione della vera natura umana di Cristo. Se Cristo non avesse pregato, se gli apostoli non lo avessero mai visto pregare – cosa che invece ritorna ripetutamente nei Vangeli – allora avremmo qualche dubbio sulla vera umanità di Cristo: che umanità è quella che non prega? L’umanità, per essenza, è creatura. E la creatura ragionevole, razionale, si volge al suo Creatore, attende da Dio tutto ciò di cui ha bisogno per vivere, per servirlo, per amarlo.

Andiamo alla risposta alla seconda obiezione. Si tratta di una frase brevissima, ma è un gioiello: «Cristo sapeva che tra le cose future a lui note alcune sarebbero avvenute per la sua preghiera. E di questo appunto era conveniente fare domanda a Dio» (ibidem). Qual era l’obiezione? Se in Cristo c’è la scienza dei beati, e c’è la scienza infusa, perché dovrebbe chiedere nella preghiera qualcosa di futuro, cioè qualcosa che in questo momento non si ha e si intende avere?. E san Tommaso ce lo spiega: «Tra le cose future a lui note [a differenza nostra, che non conosciamo la maggior parte delle cose future o ne abbiamo magari un’ipotetica idea] alcune sarebbero avvenute per la sua preghiera» (ibidem). Cristo prega precisamente perché quelle cose che “vede” avvengano.

Questo è importante anche per la nostra preghiera, perché è vero che noi non conosciamo le cose future, a differenza di Cristo, e tuttavia crediamo che quanto Dio vuole lo concede per mezzo della preghiera dei suoi figli, degli uomini. Quindi, sotto questo aspetto noi partecipiamo della preghiera di Cristo che “anticipa” o, meglio, attrae le cose future che Egli già conosce. Noi non le conosciamo (se non per un dono particolare) evidentemente, e tuttavia la nostra preghiera ha la stessa funzione – per analogia – di quella del Signore Gesù, cioè di far sì che le cose future accadano proprio per mezzo della preghiera che noi offriamo. Ne abbiamo parlato a proposito della Provvidenza, quando ci siamo chiesti “che senso ha la preghiera se Dio già ha predisposto tutto?”, ma abbiamo visto come Dio predisponga le cose perché avvengano proprio per mezzo della preghiera dei suoi figli, non nonostante o a prescindere.

La terza obiezione invece parte da una citazione di san Giovanni Damasceno: “La preghiera è elevazione della mente a Dio”. Ma se Gesù Cristo è Dio, non ha bisogno di elevarsi. Anche in quanto uomo, Gesù godeva già della visione beatifica, quindi perché si sarebbe dovuto elevare? San Tommaso dà una risposta che è un capolavoro, perché spiega l’atto proprio più importante, più caratteristico della vita umana: «Il moto [cioè l’elevatio] può significare l’atto di un ente perfetto» (quindi può indicare sia quello di un ente imperfetto che non era elevato e ora si eleva, oppure può indicare l’atto di un ente perfetto, cioè colui che rimane elevato, per capirci), «cioè esistente in atto, ossia come si dicono moto il conoscere e il sentire. E in questo senso l’intelligenza di Cristo si eleva sempre verso Dio poiché egli lo contempla sempre come superiore a sé stesso» (ibidem).

Cioè, Cristo permane con un atto proprio in questa elevazione. Qui la parte pregnante è proprio questa: la preghiera non è solo un elevarsi, come accade per noi; noi “scendiamo” sempre, poi ci eleviamo per poi ridiscendere e tutta la nostra vita è cercare di tenerci un po’ più stabilmente in alto, potremmo dire, cioè tenere la nostra mente in Dio. In Cristo c’è già questa elevazione, gode già della visione beatifica. Ma questo “esserci già” non esclude l’atto della persona che lo compie; cioè Cristo si eleva sempre verso Dio, si mantiene sempre in questa altezza. E questo è proprio l’atto fondamentale della vita umana, ciò a cui siamo chiamati.

Nell’art. 2 della q. 21 san Tommaso si domanda se il Signore potesse pregare con la sensualità. Abbiamo già chiarito questo termine: sensualità qui sta per appetito sensitivo, cioè la dimensione inferiore della nostra volontà. Egli spiega che la preghiera è un atto non dell’appetito sensitivo, della sensualità, ma della ragione. E quindi se noi chiediamo se Cristo abbia pregato con le sue facoltà sensitive, la risposta è no, perché la preghiera non appartiene alle facoltà sensitive, appartiene alla ragione. Voglio farvi notare questo: noi oggi, a sentire una cosa del genere, cioè che la preghiera sia un atto di ragione, saltiamo dalla sedia. Se sentiamo un’idea così, diciamo: “allora la preghiera non è autentica, allora non è sentita, allora non c’è trasporto, allora è puramente teorica”. Questo perché abbiamo un’idea di ragione degradata in senso razionalistico, come se la ragione fosse la ragione matematica o fisica. La ragione invece è ciò che contraddistingue l’umanità in tutte le sue dimensioni, tra cui anche quella matematico-scientifica, che però in fondo è una piccola parte. Dunque, la preghiera non è l’atto delle facoltà sensitive, è l’atto dell’uomo ragionevole, è l’atto dell’uomo. Oggi dobbiamo specificare “ragionevole” perché vediamo tanta irragionevolezza: questa è la modalità con cui l’uomo si comporta, ma per natura l’uomo è ragionevole, cioè è razionale.

La preghiera, dunque, non è una questione di sensibilità, è una questione di ragione. Uno potrebbe dire: “Allora la sensibilità non serve a niente”. No. Infatti san Tommaso dice: «Pregare con la sensualità [cioè con l’appetito sensitivo] può essere inteso nel senso che la ragione sottoponga a Dio nella preghiera ciò che la sensualità desidera. E in questo senso Cristo pregava con la sua sensualità, in quanto la sua preghiera, quasi facendosi avvocata della sensualità, ne interpretava gli affetti» (ibidem). Detto in altro modo, la ragione prende ciò che viene dall’appetito sensitivo e lo presenta a Dio. E dall’altra parte – san Tommaso lo dice rispondendo alla prima obiezione – è anche vero che nell’appetito sensitivo in qualche modo ridonda la preghiera secondo ragione: La preghiera è atto della ragione, ma questo non vuol dire che la sensibilità non sia coinvolta; vuol dire invece che la sensibilità riceve questo ordine che la ragione dà, riverbera questo ordine.

Viceversa la ragione presenta a Dio ciò che è nella sua sensibilità, anche se a volte Dio può non esaudire quello che viene dalla parte inferiore. Infatti, nell’art. 4, l’ultimo della q. 21, san Tommaso chiede: la preghiera di Cristo è sempre stata esaudita? Per esempio, quando dice «passi da me questo calice»: questo calice non è passato. Allora san Tommaso, dopo una lunga articolazione, in sostanza dice che la preghiera è un atto della ragione e da questo punto di vista la preghiera di Cristo è sempre esaudita. Ma ciò che viene dalla sua sensibilità non sempre viene esaudito. E il Signore stesso, pur sentendolo, non vuole che sia esaudito nella misura in cui riconosce che il Padre non vuole esaudire ciò che viene dalla parte sensibile.

Tante volte viene detto: “non mi sento di pregare”. La sensibilità non è una cosa cattiva, ma non può essere ciò che determina quello che è un atto della ragione. La preghiera è un atto della ragione.

Concludiamo con l’art. 3 della quæstio 21 che permette di chiarire alcune cose e illuminare alcuni misteri della persona di Cristo. San Tommaso si chiede se Cristo abbia potuto pregare per Sé stesso. Una domanda curiosa, anche questa. E la risposta è affermativa. Nel sed contra, san Tommaso cita il Vangelo di san Giovanni (17,1) dove il Signore nella preghiera dice: «Padre, glorifica il Figlio tuo». Quindi, Cristo chiede qualcosa per Sé al Padre, autorizzando quindi la preghiera per sé stessi. E san Tommaso spiega che, nella sua natura umana, il Signore «se alcuni beni li aveva già ricevuti dal Padre, altri li doveva attendere. Come quindi per i beni già ricevuti nella natura umana rendeva grazie al Padre, riconoscendolo autore di essi, così pure, sempre per riconoscerlo autore, domandava a lui nella preghiera i beni che gli mancavano secondo la sua natura umana» (III, q. 21, a. 3). Interessante. Per i beni già ricevuti, ringraziava il Padre; per quelli non ancora ricevuti e che dovevano essere attesi, li chiedeva. Esempio? La glorificazione del proprio corpo, cioè la risurrezione della propria carne dalla morte. Cristo chiede questo al Padre. È interessante, perché a volte pensiamo che non dobbiamo pregare per noi stessi: non è così. L’ordine della preghiera vuole che noi preghiamo per noi stessi, ma non per i nostri capricci, bensì per ciò che è bene per noi, ciò che è buono per noi e perché in questo venga glorificato il Padre. È la dinamica del Signore: glorifica il Figlio, perché il Figlio glorifichi Te. Quindi, noi possiamo chiedere: chiaramente non abbiamo la scienza beatifica che ha il Signore, perciò possiamo sbagliare clamorosamente in quello che chiediamo e chiedere qualcosa di assolutamente disordinato. Per esempio: “Signore, fammi vincere al totocalcio perché così con i soldi posso fare del bene e ti glorifichi”. Per carità, possiamo chiederlo, ma non è la stessa cosa… Invece possiamo e dobbiamo chiedere le grazie necessarie per la nostra battaglia spirituale, per la nostra santificazione, per la crescita nella santità, perché siamo certi che questo glorifica Dio.

Queste due questioni erano veramente molto ricche. La prossima volta continuiamo e chiudiamo questa sezione dedicata al rapporto di Cristo con il Padre. In particolare ci dedicheremo al sacerdozio di Cristo, cioè Cristo come sommo ed eterno sacerdote. Un tema veramente molto importante.



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