I limiti dell’anima di Cristo – Il testo del video
Trattando la questione dei limiti dell’anima umana del Signore, san Tommaso spiega che in Gesù Cristo non ci fu né il peccato né il fomite del peccato. Le risposte dell’Aquinate alle obiezioni comuni. Una differenza importante: passioni e propassioni.
Proseguiamo le nostre catechesi riflettendo sul dogma della vera natura umana della persona del Verbo. La scorsa volta abbiamo visto i limiti umani assunti dal Signore nel suo corpo; oggi vediamo i limiti assunti con un’anima veramente umana. Prima di entrare nel tema che occupa la quæstio 15 della terza parte della Somma Teologica, dobbiamo “ricollocare” queste due lezioni. Non si tratta di un esercizio di mera curiosità o di retorica, ma si tratta delle conseguenze del dogma di Gesù vero Dio e vero uomo.
In pratica, significa che ci sono alcune cose che possiamo e dobbiamo pensare del Signore Gesù, mentre ve ne sono altre che non possiamo pensare e affermare. E questo è importante, perché se si inizia, anche in buona fede, ad attribuire al Signore Gesù alcune cose che in realtà non gli appartengono, andiamo in qualche modo, indirettamente, a minare o la sua vera divinità o la sua vera umanità oppure l’unità delle due nature nella loro distinzione nell’unica persona del Verbo.
Questo non è un problema puramente teorico, ma è quello che ogni epoca del cristianesimo, compresa la nostra, ha dovuto affrontare, cioè la precisazione di alcune affermazioni perché, se non si precisano, il rischio molto concreto è proprio quello di scivolare nell’eresia sulle nature e sulla persona del Signore. Facciamo un esempio concreto. Pensiamo a una certa predicazione, molto in voga oggi, sulla consapevolezza messianica del Signore, sulla sua consapevolezza di essere il Figlio di Dio: ci sono molti predicatori che, enfatizzando la natura umana del Signore, finiscono per dimenticare che questa natura umana ha come supposito la persona divina, la persona del Verbo. E dunque ipotizzano che il Signore abbia scoperto, con il tempo, come qualunque essere umano, la sua vocazione messianica, oppure ha scoperto di essere il Figlio di Dio, vedendo i risultati dei suoi atti, eccetera. Questo tipo di predicazione è erronea. E domenica dopo domenica, predicazione dopo predicazione, fa entrare – nel modo di pensare delle persone, quindi anche nel modo di rapportarsi con Dio, nel modo di esercitare il culto, la virtù di religione – un’eresia che in fondo offusca la divinità, offusca la persona del Verbo. E il Signore Gesù diventa semplicemente un uomo.
Pensiamo anche a quando, con una certa facilità, si attribuisce al Signore il fomite del peccato. È proprio il tema di oggi. Cos’è il fomite del peccato? È una certa inclinazione verso oggetti morali, azioni, atti morali disordinati: quello che noi sperimentiamo quotidianamente. Una certa predicazione attribuisce questa inclinazione al Signore perché, si dice, “era veramente uomo, quindi come tutti gli uomini avvertiva questo fomite”. Questo è un errore clamoroso che chiaramente, se non lo si rintuzza semplicemente comprendendo qual è la verità del dogma dell’Incarnazione, si insinua in modo subdolo e finisce veramente per provocare quello che, a mio avviso, è il grande dramma odierno sulla persona di Cristo, ossia offuscare, se non addirittura in qualche modo negare la vera divinità del Signore e il fatto che la natura umana sussiste nella vera persona del Verbo: non ci sono due persone, una umana e una divina. E la natura umana presa dal Signore non è una natura decaduta. Ora cercheremo di circoscrivere bene la questione. Queste ultime due ore di dottrina possono essere un po’ più tecniche, ma sono importanti per capire le implicazioni del dogma dell’Incarnazione: che cosa possiamo dire e che cosa non possiamo dire del Signore Gesù.
Ora, la quæstio 15 si occupa dei limiti dell’anima umana assunta dal Signore. Nell’articolo 1, si sgombra subito il campo dal fatto se in Cristo vi fosse o no il peccato: la risposta è negativa; cioè san Tommaso dice apertamente che nel Signore Gesù non c’era il peccato. E ne spiega le ragioni. Questo è il principio generale: «Cristo assunse i nostri limiti per soddisfare per noi» (III, q. 15, a. 1). Di nuovo, vediamo questo principio fondamentale della soddisfazione, cioè dell’espiazione dei nostri peccati, che noi non potevamo più espiare.
Dunque, primo, «per soddisfare per noi». Secondo, «per dimostrare la realtà della sua natura umana»; terzo, «per divenire per noi un esempio di virtù» (ibidem). Allora san Tommaso dice che questi motivi, che sono i tre motivi dell’Incarnazione, spiegano perché il Signore «non doveva assumere il peccato. Primo, perché il peccato non contribuisce alla soddisfazione, anzi ne impedisce l’efficacia» (ibidem). Colui che viene a soddisfare per il nostro peccato, se pecca a sua volta, impedisce l’efficacia della sua soddisfazione, la rende inconsistente.
Secondo, «il peccato non serve a dimostrare la realtà della natura umana, in quanto il peccato non è essenziale alla natura umana che ha Dio per autore, ma piuttosto fu introdotto contro la natura “attraverso la seminagione del diavolo”, come dice il Damasceno» (ibidem). Punto importante. Noi spesso diciamo: “Peccare è umano, come errare è umano”. In realtà, non è così: peccare è umano secondo la natura decaduta, potremmo dire. Il peccato non è invece essenziale alla natura umana, tant’è vero che la natura umana esce dalle mani di Dio immacolata, senza peccato. Il peccato entra dopo. E dunque, per essere veramente uomo, non significa che Cristo abbia dovuto a sua volta peccare. Anche questo è un sottofondo che spesso si sente dire, come se, se uno non sperimentasse il peccato, in fondo non sarebbe veramente uomo, non potrebbe veramente aiutare qualcuno. Non è così, è una nostra distorsione delle cose.
«Terzo, non poteva egli, peccando, darci un esempio di virtù, essendo il peccato contrario alla virtù» (ibidem).
Dunque, per queste tre ragioni, il Verbo, il Signore Gesù non doveva peccare; e il suo non-peccato non inficia in nessun modo la verità della sua natura umana assunta né inficia il suo esempio di virtù.
Ora, san Tommaso ha ben presenti due espressioni della Sacra Scrittura che continuano a fuorviare molti fedeli. La prima – questa è la più tipica dell’epoca in cui la Sacra Scrittura, almeno nella cristianità latina, veniva letta secondo la traduzione della Vulgata – è tratta dal Salmo 21, con il versetto: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?», che nella nostra traduzione non riporta esattamente il testo di san Tommaso, che invece ricalca appunto la Vulgata e che dice questo: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? Il grido dei miei peccati allontana da me la salvezza» (Deus, Deus meus, quare me dereliquisti? Longe a salute mea verba delictorum meorum). Questa espressione – «Il grido dei miei peccati allontana da me la salvezza» – poteva fare intendere, essendo il Signore stesso che la pronuncia sulla croce, come attestano i Vangeli, che nel Signore ci fosse in realtà il peccato. Dando un criterio importantissimo per la lettura dei Salmi e soprattutto di questi passi che non sono attribuibili alla persona individuale del Signore, san Tommaso, nella risposta alla prima obiezione, spiega: «Per cui anche la prima delle sette regole di Ticonio ricordate da sant’Agostino [qui san Tommaso richiama un’opera importante, fondativa dell’interpretazione delle Scritture, che è il De doctrina christiana di sant’Agostino] riguarda il Signore e il suo corpo, in quanto Cristo e la Chiesa vengono considerati una sola persona. E in base a ciò Cristo pronuncia le parole: “Il grido dei miei peccati”, a nome delle sue membra; e non nel senso che in lui stesso che ne è il capo ci fossero dei peccati» (ibidem). Cioè, ci sono dei passi, come questo, dei Salmi e in generale delle Sacre Scritture, nei quali il Signore fa uscire dalla sua bocca queste parole non in quanto singolo, ma a nome delle membra di cui è capo, a nome della sua Chiesa, a nome nostro. E in questo senso prende su di Sé il nostro peccato pur senza compierlo.
L’altro passo – altro grande “classico” che può fuorviare o che può costituire un’obiezione sulla non peccaminosità di nostro Signore – è tratto dalla Seconda Lettera ai Corinzi (5,21): «Dio ha fatto diventare peccato a nostro favore colui che non aveva conosciuto peccato». Cosa vuol dire che «Dio ha fatto diventare peccato...»? Nella risposta alla quarta obiezione, san Tommaso spiega: «Dio ha fatto diventare peccato Cristo non già permettendone il peccato, ma facendolo vittima del peccato» (ibidem). Questa espressione molto forte di san Paolo non significa che Cristo abbia peccato, ma piuttosto che abbia subìto il peccato, cioè che abbia preso su di Sé la pena del peccato e dunque sia diventato vittima del peccato, precisamente per espiarlo, per soddisfare a nostro favore.
Un’altra obiezione, a cui abbiamo già accennato, ha un po’ questo tenore: per essere modello e aiuto degli uomini che sono peccatori, anch’Egli doveva avere in qualche modo sperimentato il peccato, perché – se non lo ha sperimentato – come poteva essere di aiuto o di insegnamento? San Tommaso, nella risposta alla quinta obiezione, spiega: «L’esempio lodevole che dà il penitente non è quello del suo peccato, ma quello della volontarietà con cui ne sopporta la pena. Perciò Cristo ha offerto ai penitenti l’esempio più grande, subendo volontariamente la pena per i peccati degli altri, senza alcun peccato suo proprio» (ibidem). Punto importantissimo. Il Signore non è venuto a darci l’esempio del peccato e del peccatore, ma a darci l’esempio del penitente. In che cosa il peccatore può essere imitato? Non nel suo peccato, evidentemente, ma nella modalità in cui fa penitenza espiandolo, quindi portando su di sé, accettando di portare la pena del proprio peccato. E in questo, dunque, il Signore ci dà un esempio sommo, perché fa precisamente quello che fa il penitente virtuoso – accetta la pena su di Sé per espiare – e lo fa in misura maggiore, perché non espia solo per un peccato, ma per i peccati di tutti gli uomini; in più, lo fa da innocente e da Figlio di Dio, quindi dando un valore infinito a questa espiazione.
Questo, dunque, è un po’ l’insegnamento che san Tommaso ci dà nell’art. 1 della q. 15 sul perché non possiamo affermare che Cristo abbia peccato.
Nell’art. 2 della quæstio 15, san Tommaso si domanda se in Cristo ci sia stato il fomite del peccato. Che cos’è il fomite? Ne abbiamo accennato all’inizio di quest’Ora di dottrina. Si chiede in sostanza se Cristo abbia avvertito, com’è nostra comune esperienza, quell’inclinazione dell’appetito sensitivo, cioè della parte “inferiore” dell’anima, quella più legata alla sfera sensibile, verso ciò che è contro ragione, verso ciò che è disordinato. Esperienza comunissima: attrazione disordinata verso il cibo, un certo tipo di cibo, per esempio, verso il vino. Ripeto: attrazione non verso il cibo in quanto tale, ma come disordine. E la risposta è negativa. La ragione che san Tommaso dà è quella che abbiamo già fornito nell’Ora di dottrina quando abbiamo parlato della perfezione dell’anima superiore del Signore, nel suo intelletto e nella sua volontà: abbiamo detto che l’anima del Signore era piena di ogni virtù nella sua perfezione. Che cos’è la virtù? La virtù è proprio l’ordine impresso. L’uomo virtuoso è l’uomo che ha vinto, che ha dominato questa inclinazione, rimanendo nella vita secondo ragione, nell’ordine.
Ora, essendo presente nel Signore la pienezza della virtù e la perfezione di ogni virtù fin da subito, è chiaro che il Signore non ha mai sperimentato il fomite del peccato. Attenzione: questo non vuol dire che il Signore non cercasse gli oggetti propri dell’anima sensitiva, cioè il cibo, il riposo, la bevanda, eccetera, ma lo faceva sempre in modo ordinato, sempre secondo ragione, cioè mai in un modo disordinato o vizioso. Anche su questo tema c’è molta confusione. Alcuni predicatori, più o meno ufficiali, parlando della natura del Signore, hanno sostenuto che, se era vero uomo, aveva dovuto anche lui sentire il fomite del peccato nelle sue diverse dimensioni: il cibo, la sessualità, la collera, eccetera. Invece, non è così. E, di nuovo, non è così perché non è il fomite del peccato ad essere caratteristico ed essenziale alla natura umana: è la virtù ad essere essenziale. Il fomite del peccato e, se lo si segue, il vizio, fanno invece parte della natura decaduta. Di nuovo è importante questa distinzione.
Saltiamo l’art. 3 perché ne abbiamo già parlato (in Cristo non c’era l’ignoranza) e passiamo all’art. 4 che è un po’ il perno di una serie di articoli successivi e che si domanda se l’anima di Cristo fosse passibile. Allora, affermare che non ci fosse il fomite del peccato non significa negare la passibilità dell’anima sensitiva del Signore. Cioè, il suo appetito sensitivo provava, avvertiva le passioni, purché al termine “passioni” diamo il senso corretto: non si trattava di passioni viziose, ma di semplici affetti, come l’ira, come la tristezza, come la gioia, eccetera. San Tommaso dice: sì, l’anima del Signore era passibile. Ma proprio perché non c’era il fomite del peccato – cioè, non c’era disordine – ma regnava l’ordine, regnava la virtù, bisogna fare una precisazione proprio per distinguerla da quella passibilità che avvertiamo noi nella natura decaduta.
Di nuovo, il problema non è se Cristo fosse vero uomo o no, ma se avesse assunto un’umanità con le caratteristiche del decadimento, quindi della perdita di quell’integrità, di quell’ordine che invece è proprio della natura umana per come è uscita dalle mani di Dio. San Tommaso introduce questo termine specifico per distinguere, dalle nostre, le passioni sperimentate dal Signore e le chiama propassioni.
Che cosa distingue la propassione del Signore dalla passione? San Tommaso fa una precisazione e spiega che le passioni si trovavano in Cristo in modo diverso da come si trovano in noi. In modo diverso sotto tre aspetti: «Primo, per l’oggetto, poiché in noi il più delle volte queste passioni si volgono a cose illecite, il che non avveniva in Cristo» (III, q. 15, a. 4). È il corollario dell’articolo precedente: non essendoci il fomite del peccato, mai la passione del Signore si è volta verso cose illecite, verso oggetti morali disordinati. «Secondo, per la causa. Poiché tali passioni spesso in noi prevengono il giudizio della ragione, mentre in Cristo tutti i movimenti dell’appetito sensitivo nascevano dal comando della ragione» (ibidem). Cioè, in noi la passione arriva prima della nostra ragione, è più “veloce” e quindi condiziona il giudizio della ragione, il giudizio secondo ragione. In Cristo non era così. «Terzo, per l’effetto. Poiché in noi a volte tali passioni non si arrestano all’appetito sensitivo, ma trascinano la ragione. Il che non avveniva in Cristo poiché tutti i moti attinenti alla carne umana erano contenuti per sua volontà nell’appetito sensitivo, in modo tale che la sua ragione non ne veniva minimamente intralciata» (ibidem).
Cosa fanno infatti in noi le passioni? Arrivano e travolgono la ragione, cioè travolgono la nostra volontà. L’appetito sensitivo, con queste passioni, travolge l’appetito razionale e appunto poi compiamo cose che non sono secondo ragione. In Cristo non era così: l’appetito sensitivo rimaneva nell’appetito sensitivo senza travolgere, trascinare la volontà, l’appetito razionale.
E dunque questa distinzione tra le propassioni di Cristo e le nostre passioni permette a san Tommaso di spiegare alcune passioni presenti in Cristo. Anzitutto, è chiaro che nel Signore c’era un vero dolore sensibile, da questo punto di vista il corpo del Signore era un corpo passibile e mortale, come abbiamo già visto. Ma a noi adesso interessano gli ultimi articoli che trattano rispettivamente di alcune passioni, cioè la tristezza, il timore e l’ira. C’erano queste passioni nel Signore?
Alla tristezza è dedicato l’art. 6. Teniamo presente la differenza tra la propassione e la passione, tra le caratteristiche dell’una e quelle dell’altra. Ora, che cos’è la tristezza? Abbiamo fatto una lezione su come distinguere le diverse passioni umane. La tristezza, se ricordate, è quella passione che corrisponde alla percezione del male come presente: io percepisco il male presente e l’anima sensitiva reagisce provando tristezza. San Tommaso dice che nel Signore c’era la tristezza. Perché c’era tristezza? Perché il Signore percepiva nella sua natura umana il male presente e dunque c’era la tristezza. E tuttavia è diversa da quella che sperimentiamo noi, per quello che abbiamo detto prima: in pratica, la tristezza del Signore non comportava un turbamento delle facoltà superiori, non offuscava il giudizio, non inclinava a cose illecite, non trascinava la volontà. Era una vera tristezza, ma mantenuta, contenuta nell’appetito sensibile.
Possiamo dire la stessa cosa del timore, trattato nell’art. 7. Analogamente, se la tristezza è la reazione dell’appetito sensitivo al male presente, il timore è la reazione dell’appetito sensitivo al male futuro. Dunque, il timore era presente nell’anima sensitiva del Signore e, di nuovo, non come incertezza del futuro, perché nell’infinita conoscenza e sapienza del Signore non c’era un’incertezza. La perfezione delle sue virtù faceva sì che il timore non divenisse mai occasione di sfiducia o di dubbio.
Ancora, nell’art. 9, molto curioso e interessante, san Tommaso si domanda se il Signore abbia sperimentato l’ira. San Tommaso spiega che l’ira in qualche modo è un derivato: ha un aspetto della tristezza, perché ha a che fare con il male presente, e con il desiderio di vendetta. «Abbiamo detto che in Cristo ci poteva essere la tristezza. Quanto poi al desiderio di vendetta [che è la seconda componente dell’ira], esso è qualche volta peccaminoso, quando cioè la vendetta è cercata contro l’ordine della ragione. E in questo senso l’ira non poteva trovarsi in Cristo: si tratta infatti del vizio dell’ira. Altre volte, invece, tale desiderio di vendetta non è peccaminoso, ma anzi è lodevole, per esempio quando si cerca la vendetta secondo giustizia. E questa è “l’ira per lo zelo”, di cui sant’Agostino scrive che “è divorato dallo zelo per la casa di Dio, chi brama di correggere i mali che vede e, se non lo può fare, li tollera gemendo”. E tale ira ci fu in Cristo» (III, q. 15, a. 9).
Colpo di scena, potremmo dire. Una cosa forse lontanissima dal nostro modo di pensare è che nel Signore potesse esserci un desiderio di vendetta: e invece, ci dice san Tommaso, c’era; ma – ed è un “ma” d’obbligo – non è il desiderio di vendetta tipico dell’essere umano, cioè contro la ragione – dove l’ira in qualche modo acceca il giudizio della ragione (la passione travolge la ragione e quindi alla fine la vendetta sfocia nell’ingiustizia) –, ma c’era invece nel suo modo ordinato. Che cos’è un desiderio di vendetta addirittura lodevole? Come dice sant’Agostino, è quello di “chi brama di correggere i mali che vede e, se non lo può fare, li tollera gemendo”. Il desiderio di vendetta, in fondo, non è altro che il desiderio di riportare la giustizia, cioè di non sopportare l’ingiustizia. Questo è importantissimo in un tempo come il nostro, dove sembra che la mansuetudine sia una sorta di patto e di pace fatta con l’ingiustizia, una tolleranza a basso costo dell’ingiustizia: non è così, è esattamente l’opposto. E infatti san Tommaso si premura di rispondere a tre obiezioni classiche di un’affermazione così forte, cioè che nel Figlio di Dio fosse presente l’ira in quanto tristezza del male presente e anche desiderio di vendetta, cioè di essere vindice. Tante volte nelle Sacre Scritture troviamo questa espressione, cioè che Dio è vindice: lo interpretiamo in modo sbagliato, ma la soluzione non è togliere questa verità, è capirla.
Quali sono le tre obiezioni? La prima è una citazione della Lettera di San Giacomo (1,20), dove l’apostolo scrive: «L’ira dell’uomo non compie ciò che è giusto davanti a Dio». San Tommaso spiega che l’ira si comporta in due modi: «A volte previene la ragione e la trascina ad agire. Allora, si dice che è propriamente l’ira che opera» (III, q. 15, a. 9). E in questo senso è vero che l’ira dell’uomo non compie ciò che è giusto davanti a Dio. Sostanzialmente è la nostra ira che è sregolata, il nostro desiderio di vendetta che trascina, oscura la ragione. A volte invece l’ira segue la ragione e le serve da strumento. «Allora l’operazione che è secondo giustizia non viene attribuita all’ira ma alla ragione» (ibidem). Ed è questa ira che è presente nel Signore e che è buona; questa collera è buona.
Seconda obiezione: l’ira si oppone alla mansuetudine. Ma il Signore ha detto: «Imparate da me che sono mite e umile di cuore». E dunque – è l’obiezione – nel Signore non ci può essere l’ira. Queste sono obiezioni molto comuni. Ma san Tommaso risponde: «L’ira che viola l’ordine razionale si oppone alla mansuetudine, non invece l’ira che è moderata dalla ragione e contenuta nel giusto mezzo. Infatti è la mansuetudine che segna il giusto mezzo dell’ira» (ibidem). Cioè, la mansuetudine non è l’assenza dell’ira, non è l’assenza del desiderio di vendetta, ma è il contenimento di questa passione dentro i limiti della ragione, cioè dentro ciò che è giusto, che è bene, senza invece farsi trascinare da questa passione.
Terza obiezione. Sperimentiamo tutti che l’ira acceca, turba l’animo umano. E di nuovo san Tommaso risponde: «In noi, secondo l’ordine di natura, le potenze dell’anima si ostacolano a vicenda, nel senso che quanto più intensamente agisce l’una, tanto più si affievolisce l’operazione dell’altra. E da ciò deriva che il moto dell’ira, per quanto moderato dalla ragione, impedisce sempre un poco la contemplazione dell’anima [cioè la pace dell’anima e quindi la sua possibilità di contemplare]. Ma in Cristo, sotto la direzione della divinità, ogni potenza aveva la libertà di agire secondo la sua natura, senza che l’una impedisse l’altra» (ibidem). Dunque, san Tommaso nuovamente dice che nel Signore l’ira non era affatto un accecamento, un turbamento, essendo contenuta, moderata, equilibrata, sotto la direzione della sua divinità, in modo tale che l’ira non andasse a detrimento della contemplazione.
Vediamo dunque quante conseguenze dall’affermazione della vera umanità e della vera divinità del Signore. La prossima volta vedremo alcuni aspetti importanti dell’atteggiamento di Cristo nei confronti del Padre, in particolare la sua sottomissione al Padre, la sua preghiera, il suo sacerdozio, la sua adozione.
I limiti dell’anima di Cristo
Trattando la questione dei limiti dell’anima umana del Signore, san Tommaso spiega che in Gesù Cristo non ci fu né il peccato né il fomite del peccato. Le risposte dell’Aquinate alle obiezioni comuni. Una differenza importante: passioni e propassioni.
La corporeità di Cristo – Il testo del video
Gesù Cristo ha assunto un corpo con i limiti che caratterizzano universalmente la natura umana dopo la caduta: tre ragioni di convenienza, spiegate da san Tommaso. La particolarità di Cristo: anima perfetta, corpo passibile.
L’anima di Cristo: la volontà – Il testo del video
Il mistero della volontà di Cristo è stato nei secoli oggetto di diverse eresie che hanno negato in vario modo la verità della presenza in Lui di due volontà: divina e umana. I tre aspetti della volontà umana in Cristo: armonia o disarmonia? Il suo libero arbitrio: sempre conforme alla volontà divina.
L’anima di Cristo: l’intelletto – Il testo del video
In Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo, c’è sia un’intelligenza divina sia un’intelligenza umana. I suoi tre tipi di conoscenza: la scienza dei beati (visione beatifica), la scienza infusa, la scienza acquisita.