"Benedette" convivenze. E Avvenire archivia i comandamenti
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«Siamo andati a convivere e ora preghiamo di più»: è la nuova apertura del quotidiano dei vescovi, all'insegna del "sì, no, dipende". Con buona pace della verità che rende liberi.
«Siamo andati a convivere e ora preghiamo di più». Il titolo, tra l'esilarante e il tragico, non poteva che trovarsi nel quotidiano dei vescovi italiani, Avvenire, ed ovviamente in un articolo a firma di Luciano Moia. Il quale ci tiene a sottolineare che non è una frase inventata, ma la confidenza di due “conviventi oranti” al direttore del Centro Famiglia della diocesi di Treviso, don Francesco Pesce; il don lo avrebbe rivelato «in forma anonima» durante un incontro periodico tra i responsabili diocesani di pastorale familiare coordinati dall’Ufficio CEI. Qualcuno poi lo ha detto a Moia, che non ha perso l'occasione per confermare il proverbio: un bel tacer non fu mai scritto.
Loquacità decisamente fuori posto anche quella di don Francesco Pesce, membro di non si sa quanti comitati e associazioni, dallo scorso anno docente al Corso di Alta Formazione per Operatori di pastorale familiare, organizzato dall'Ufficio nazionale per la Pastorale della famiglia della CEI, in collaborazione con l'Università Cattolica di Milano. Dunque, un “espertissimo”. «Spesso, durante questi incontri, mi chiedono se le coppie conviventi possono fare la comunione. La mia risposta è “dipende”, perché la varietà delle situazioni impedisce le chiusure troppo nette, ma anche la tolleranza generalizzata», ha spiegato don Pesce; il quale ha subito aggiunto: «A rigore di dottrina dovremmo dire che le coppie impegnate a vivere come fratello e sorella possono accedere ai sacramenti, le altre no. Ma cosa significa vivere “come fratello e sorella”? Non si tratta di uno sguardo che impoverisce il concetto di fraternità?».
Le sagge nonne di una volta, sullo stile della nonna di Timoteo, Loide (cf. 2Tm 1, 5), avrebbero commentato con sagace saggezza: tanta scienza per niente. Vivere come fratello e sorella non è un'espressione ambigua, e nel linguaggio magisteriale, se riferita a un uomo e una donna conviventi, che non sono fratelli di sangue, significa una sola cosa: astensione dai rapporti che sono propri dei coniugi, per la semplice ragione che coniugi non sono. E non si comprende come questa astensione possa «impoverire il concetto di fraternità», dal momento che è proprio la condizione per arricchirlo, ossia per guardare all'altro/a con uno sguardo puro, scevro da quel disordine della sfera concupiscibile, che punta all'altro come oggetto, spesso complice, del proprio atto disordinato.
Se dunque tutto quel carrozzone messo in piedi dalla CEI e dall'Università Cattolica di Milano non trova nulla da dire su questa posizione del Reverendo, significa solo che è necessario stare lontani da questi corsi di “alta formazione”.
La strada maestra di questa nuova generazione di “accompagnatori spirituali” ha il marchio inconfondibile di Amoris Lætitia, la quale, non a caso, secondo quanto riferisce Moia, è stata citata (n. 304) da don Pesce: «… meschino soffermarsi a considerare solo se l’agire di una persona risponda o meno a una legge o a una norma generale, perché questo non basta a discernere e ad assicurare una piena fedeltà a Dio nell’esistenza concreta di un essere umano». Meschino solo per chi non ha compreso che questa “norma generale” è in realtà espressione del volere sapiente e benevolo di Dio. E dunque chi si oppone a questa legge, pecca direttamente contro la carità divina, come ebbe a confermare un tale di nome Gesù: «Chi non mi ama non osserva le mie parole» (Gv 14, 24); e in positivo: «Se mi amate, osserverete i miei comandamenti. (…) Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi mi ama» (Gv 14, 15.21).
Meschino è dunque chi non riesce a comprendere che i comandamenti di Dio non sono norme astratte, ma l'espressione dell'amore di Dio per la sua creatura; e così la loro osservanza non significa corrispondere a una norma, ma accogliere l'amore di Dio e corrispondergli. E ancora più meschino è chi chiude questa prospettiva di verità a quanti sono nell'errore, arrendendosi alla mortifere mode culturali del nostro tempo e accontentandosi, come scrive Moia, di accompagnare queste persone «nelle loro storie d’amore». Segno di un cristianesimo sfiancato, senza più né lume né vigore; un cristianesimo etsi Christus non daretur, dove i pastori diventano cani da compagnia, che vanno a spasso con i loro padroni dove più li aggrada, che si offrono per una pet therapy consolatoria.
«Più che la norma, serve allora un confronto sereno ed autentico sulla “qualità cristiana” della vita di coppia dei conviventi», sentenza Moia, manifestando così in modo palese di non comprendere più il senso dell'aggettivo “cristiana”. E di non avvedersi che quanto egli cerca di buttar fuori dalla porta rientra dalla finestra: per confrontarsi sulla qualità cristiana della vita, occorrono infatti dei criteri di valutazione; e se ci sono dei criteri, vi sono anche delle norme, che indicano come vivere all'altezza di questi criteri. Dunque, se serve un confronto sereno, servono le norme.
Moia mostra altresì di non avere un'idea chiara dei semina Verbi, allorché afferma che le situazioni non matrimoniali «non sono da demonizzare», perché avrebbero questi semi di verità. Lungi da noi affermare che non vi possa essere del bene in qualunque relazione; ma non è questa una scoperta dell'acqua calda? Non è forse vero che il male è una privazione, e non qualcosa che si aggiunge al bene? Il punto non è che si dubiti del fatto che due ragazzi conviventi possano compiere del bene, ma per continuare a compiere questo bene, non è necessario avere rapporti sessuali. I quali, al di fuori del matrimonio, sono invece un male. E grave.
«Inutile scandalizzarsi o rimpiangere i “bei tempi andati”, anche i nostri ragazzi sono immersi in questa cultura. Cosa facciano? Prendiamo le distanze o poniamo il massimo impegno per non far sentire sole queste coppie? Perché non mostrare loro che la vita quotidiana insieme è un’opportunità per crescere anche nella vita spirituale?», pare abbia concluso il sacerdote “esperto”. Se don Pesce avesse dato un peso reale a queste domande, anziché porle in modo retorico per preparare la strada della dismissione dell'annuncio della verità evangelica, non avrebbe avuto difficoltà a trovare la risposta.
Ai nostri ragazzi immersi in questa cultura si deve dire la verità che rende liberi, si deve continuare a proporre la sfida dell'ascesi liberante, sostenuta dalla grazia di Dio; non si deve smettere di mostrare che solo una sessualità vissuta come donazione fedele e aperta alla vita fa crescere l'uomo. La sessualità vissuta in altro modo è un grande inganno, che giorno dopo giorno scava i solchi di una grande sofferenza, fino al fallimento della relazione. E di questo fallimento verrà chiesto conto a Moia, a don Pesce e alla CEI.
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