Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
Santa Francesca Saverio Cabrini a cura di Ermes Dovico
diritti e diritto

Affondo su eutanasia e omogenitorialità: la Consulta vìola la Costituzione

Ascolta la versione audio dell'articolo

Invitando il Parlamento a legiferare su eutanasia e omogenitorialità, il presidente della Consulta Barbera si intesta un potere che la Costituzione non gli dà. Se lo fa è per motivi ideologici, usando come criterio la “coscienza collettiva” che però non può essere il paradigma per chi deve garantire sulla costituzionalità delle leggi. 

Politica 20_03_2024

«Che il Parlamento legiferi su eutanasia e omogenitorialità». Questa esortazione viene  dal presidente della Corte costituzionale Augusto Antonio Barbera ed è contenuta nella Relazione annuale tenutasi il 18 marzo scorso.

Riportiamo le sue parole in merito a questo passaggio: «Auspico sia un intervento del legislatore che dia seguito alla sentenza n. 242 del 2019 (il cosiddetto caso Cappato ndr.), sul fine vita, sia un intervento che tenga conto del monito relativo alla condizione anagrafica dei figli di coppie dello stesso sesso (come già auspicato nelle due sentenze n. 32 e n. 33 del 2021). In entrambi i casi il silenzio del legislatore sta portando, nel primo, a numerose supplenze delle assemblee regionali; nel secondo, al disordinato e contraddittorio intervento dei Sindaci preposti ai registri dell’anagrafe» (p. 17). Sia sull’eutanasia che sull’omogenitorialità infatti la Consulta, nelle sentenze citate, aveva chiesto al Parlamento di legiferare.

A volte, nella storia della Corte, la stessa ha offerto lo spunto al Parlamento di legiferare e quest’ultimo è stato pronto a cogliere tale spunto: «Importanti innovazioni nella storia della Repubblica – si pensi alla disciplina dell’interruzione della gravidanza o a quella delle unioni civili – sono state il frutto del concorso di rilevanti pronunce della Corte costituzionale (rispettivamente sentenze n. 27 del 1975 e n. 170 del 2014), a cui hanno fatto seguito non meno significative decisioni legislative, che hanno visto ampiamente coinvolta la rappresentanza popolare (rispettivamente la legge n. 194 del 1978 e la legge n. 76 del 2016)» (p. 12).

Cosa fare invece di fronte all’inerzia del legislatore? In tal caso la Corte diventa essa stessa una terza camera del Parlamento: «In assenza, però, di tale convergenza e a fronte di una eventuale persistente inerzia legislativa, la Corte […] non può tuttavia rinunciare al proprio ruolo di garanzia, che include anche il compito di accertare e dichiarare i diritti fondamentali reclamati da una “coscienza sociale” in costante evoluzione» (p. 13). Si aggiunge un altro principio che legittimerebbe l’intervento legislativo della Corte: «La lettera della Costituzione non [sempre] indica una soluzione univoca. [Occorre] un approccio ispirato alla eccedenza assiologica dei “principi”, piuttosto che al più stretto respiro delle “regole”» (pp. 13-14).

E dunque a motivo dell’inerzia del Parlamento e facendo leva sul riferimento della coscienza collettiva che cambia e su alcuni principi costituzionali aperti ecco che la Consulta non può esimersi da un intervento di carattere normativo: «Non si può non manifestare un certo rammarico per il fatto che nei casi più significativi il legislatore non sia intervenuto, rinunciando ad una prerogativa che ad esso compete, obbligando questa Corte a procedere con una propria e autonoma soluzione, inevitabile in forza dell’imperativo di osservare la Costituzione» (p. 17).

Cosa ci sta dicendo Barbera? Ci sta dicendo che se il Parlamento non la pensa come i giudici della Consulta e quindi non vuole procedere nella direzione indicata da questa – vedi aiuto al suicidio del caso Cappato e vedi omogenitorialità – e a fronte di una coscienza sociale cambiata e di alcuni articoli della Costituzione che esprimono principi generali, la Corte può legiferare.

Ma la Corte costituzionale ha questo potere? No e ce lo dice proprio la Costituzione stessa, ossia quel testo che dovrebbe essere custodito nel suo significato proprio dai giudici costituzionali, Barbera in testa. Ricordiamo a tal proposito l’art. 70: «La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere». L’art. 70 non fa alcun cenno alla Corte costituzionale. La stessa, sul suo sito, ricorda: «I giudici non possono creare o modificare le leggi, ma le devono applicare».

Che la Consulta non sia il terzo ramo del Parlamento è poi provato anche dall’art. 134 Cost. che illustra quali siano i compiti della Corte Costituzionale: «La Corte costituzionale giudica: sulle controversie relative alla legittimità costituzionale delle leggi e degli atti, aventi forza di legge, dello Stato e delle Regioni; sui conflitti di attribuzione tra i poteri dello Stato e su quelli tra lo Stato e le Regioni, e tra le Regioni; sulle accuse promosse contro il Presidente della Repubblica, a norma della Costituzione».

La Consulta può fare solo una cosa: giudicare. Non c’è scritto: legiferare. Dunque quando, come nella sentenza che ha depenalizzato/legittimato l’aiuto al suicidio, la Consulta diventa legislatore eccede i poteri che le sono stati assegnati dalla Costituzione stessa. In questi casi la Corte non osserva la Costituzione, come vorrebbe farci credere il dott. Barbera, bensì la viola.

E perché lo fa? Per motivi ideologici. Interessante, a tale proposito, il riferimento alla “coscienza collettiva” e ad una lettura aperta degli articoli della Costituzione, una lettura non letterale. In merito al primo aspetto la Consulta, anche in questo caso in modo indebito perché competenza non rientrante nei suoi compiti, interpreta i sentimenti, gli orientamenti valoriali, i costumi, i giudizi di massa degli italiani e li traduce in norme. Una giurisprudenza sociale.

Pronunciamenti che quindi rischiano di assomigliare più a sondaggi di opinione che a sentenze. Ma il paradigma di riferimento della Consulta è la Costituzione e non la coscienza sociale e questa non può diventare strumento di interpretazione della Costituzione, proprio perché, ancora una volta, la Costituzione non lo prevede. Ed infatti: cosa fare se la coscienza collettiva va nella direzione contraria a quella indicata dalla Costituzione? Come interpretare la Costituzione se ad un certo momento ad esempio tutti gli italiani diventassero monarchici? Ne siamo certi: in questo caso la coscienza collettiva non andrebbe ascoltata. Quest’ultima deve essere ascoltata solo se il suo sentire coincide con quello dei giudici della Consulta.

Secondo espediente per far passare alcune leggi contrarie ai principi non negoziabili: dichiarare che non bisogna rispettare la lettera degli articoli della Costituzione, ma il suo spirito, la sua ratio. Guardare più ai valori contenuti negli articoli, seppur non esplicitamente espressi, che alle regole da questi imposti. Tradotto: facciamo dire alla Costituzione quello che noi vogliamo e che lei non vuole dire.

È proprio il caso dell’aiuto al suicidio e dell’omogenitorialità. In merito al primo tema se leggiamo l’art. 2 della Costituzione – tutela dei diritti fondamentali della persona tra cui ovviamente la vita – comprendiamo che la Costituzione se predica un diritto alla vita non può, pena il non rispetto del principio di non contraddizione, predicare anche il suo opposto, ossia il diritto alla morte. In merito all’omogenitorialità, l’unica famiglia descritta dalla Costituzione è quella eterosessuale: lo comprendiamo dai lavori preparatori dell’art. 29 e dalle norme del Codice civile che esplicitano il concetto di famiglia parlando di marito e moglie (cfr. ad es. l’art. 143 cc), norme che non sono mai state dichiarate incostituzionali perché non ricomprendevano le “famiglie arcobaleno”.

Da registrare infine l’appoggio del presidente della Consulta per le iniziative delle Regioni volte a legiferare sul suicidio assistito – iniziative però incostituzionali – e il riferimento furbo alle decisioni di carattere amministrativo per riconoscere i figli delle coppie gay, furbo perché si vuole spronare il Parlamento ad intervenire per far ordine nel caos provocato dai sindaci. Ma il caos in questo caso si risolve non legittimandolo, bensì vietandolo.