Via emiliana all'eutanasia, 17 associazioni ricorrono al Tar
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L'Emilia-Romagna vuole bruciare le tappe verso il "diritto a morire" con due delibere e una determina direttoriale, ora impugnate da Centro Studi Livatino, Movimento per la Vita e altre realtà che ne chiedono l'annullamento.
17 associazioni tra cui il Centro studi Livatino, il Movimento per la Vita, il Forum delle Famiglie, i Giuristi cattolici e i Medici cattolici, la Comunità Papa Giovanni XXIII hanno notificato un ricorso al Tar per chiedere l’annullamento di due delibere della Giunta regionale dell’Emilia-Romagna (DGR 194/2024 e D.G.R. 333/2024) e di una determina direttoriale (n. 2596/2024) che hanno legittimato l’aiuto al suicidio in accordo, così sostiene a torto la Regione, con la sentenza della Corte Costituzionale n. 242/2019 (qui un approfondimento).
I ricorrenti hanno impugnato queste delibere per diversi motivi. In primo luogo, la materia del suicidio assistito è di competenza esclusiva dello Stato, non delle Regioni, e quindi deve essere disciplinata dal Parlamento sia sotto il profilo civile sia sotto quello penale. In merito al primo aspetto si può leggere nel ricorso: «va evidenziato che gli atti di disposizione del corpo, tra i quali indubbiamente rientra il suicidio assistito, incidono su aspetti essenziali dell’identità e dell’integrità della persona e riguardano, pertanto, l’ordinamento civile, materia riservata alla potestà esclusiva dello Stato, ai sensi dell’art. 117, co. 2, lett. l, Cost.».
In secondo luogo, la Consulta era intervenuta sull’art. 580 cp permettendo, nel rispetto di alcune circostanze e procedure, il suicidio assistito. Dunque le stesse delibere regionali disciplinano una materia che possiede anche e soprattutto profili penali. Ma tale ambito è nuovamente di competenza esclusiva dello Stato (cfr. art. 117, co. 2, lett. l, Cost.; Corte cost., n. 228/2021). All’opposto, riconoscere una competenza in questa materia alle regioni condurrebbe al risultato paradossale che seguire un certo protocollo eutanasico potrebbe essere qualificato come lecito in Emilia-Romagna e come reato in Lombardia.
L’incompetenza della Regione è attestata anche dal fatto che non esiste, allo stato attuale, una «normativa nazionale in materia di assistenza medica e farmacologica a chi domandi supporti chimici e modalità sanitarie idonee per suicidarsi; ciononostante, [la Regione] ha illegittimamente inteso delineare un percorso per il “suicidio medicalmente assistito", in manifesta assenza di qualsiasi norma di livello primario che a ciò la facoltizzasse», contraddicendo così l’art. 117 co. 2 il quale prevede alla lettera “m” che è di spettanza esclusiva dello Stato la «determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale».
Ad aggravare poi il quadro emerge anche la considerazione che la decisione della Regione Emilia-Romagna non proviene dal Consiglio regionale, titolare della potestà legislativa, ma dalla Giunta – organo dell’esecutivo – e dal Direttore della Direzione Generale Cura della Persona, Salute e Welfare – organo di carattere meramente amministrativo.
Un’obiezione usale a quanto sin qui argomentato è la seguente: la Regione si è mossa perché non l’ha fatto il Parlamento, agendo così in ossequio al cosiddetto principio di cedevolezza. Ma la Corte costituzionale è di diverso avviso: il principio di cedevolezza «attiene alle materie di competenza esclusiva regionale e a quelle di competenza concorrente, […] senza però che la previsione della clausola consenta alle Regioni di intervenire in ordine a profili che attengano alla competenza esclusiva del legislatore statale» (Corte cost., sentenza n. 1/2019).
Ulteriore censura presente nel ricorso: la sentenza della Corte Costituzionale prima menzionata prevede che per accedere all’aiuto al suicidio si debba interessare il Comitato etico territorialmente competente. Invece la Regione Emilia-Romagna ha assegnato questo compito al Comitato Regionale per l’Etica nella Clinica. Questi due comitati sono due organi essenzialmente differenti. Solo il primo è normato e la sua struttura è identica in tutte le regioni perché organo del Servizio Sanitario Nazionale. Non così il secondo. Ne risulterebbe una gestione dei casi di richiesta di suicidio assistito diversificata a seconda delle regioni, esito contrario ai principi costituzionali che in merito al diritto alle cure – ammesso e non concesso che chiedere di morire sia una cura – prevede una disciplina omogenea su tutto il territorio nazionale per ovvi motivi di uguaglianza (cfr. Corte Cost. sentenza n. 262 del 2016).
Proseguiamo: le delibere della Regione asseriscono che danno attuazione a quanto indicato dalla Consulta. Ma non è così non solo per i motivi appena descritti, ma anche perché la Consulta ha previsto, prima della soluzione eutanasica, un «coinvolgimento» del malato «in un percorso di cure palliative». Questa opzione diversa dal suicidio assistito non è presente nella delibere della Regione.
Detto tutto ciò, ci troviamo in distonia solo su un punto del ricorso laddove si asserisce, contrariamente a quanto espresso dalla Regione, che la Consulta ha solo depenalizzato la condotta dell’aiuto al suicidio in presenza di alcune condizioni e non certo ha riconosciuto il diritto all’aiuto al suicidio. Vero è che questo giudizio si può evincere dalla lettera del testo della Consulta, ma vi sono altri motivi che, in contraddittorio con l’espressione letterale, depongono a favore di una lettura legittimante il suicidio assistito.
In modo molto sintetico e come avevamo già spiegato, il diritto a morire è stato già sancito da ampia giurisprudenza e dalla legge 219/17 in merito alla possibilità in capo al singolo di rifiutare trattamenti sanitari salvavita: un modo come un altro per togliersi la vita. Se dunque il diritto a morire si può esercitare tramite il rifiuto di trattamenti salvavita, non si comprende il motivo per cui l’esercizio di questo stesso diritto non possa essere soddisfatto tramite diverse modalità, tra cui l’aiuto al suicidio.
In secondo luogo, come già avevamo appuntato da queste stesse colonne, «la Consulta ha inserito l’aiuto al suicidio nella legge 219/2017, la cosiddetta legge sulle Dat, nella quale le pratiche eutanasiche sono intese come veri e propri diritti per più motivazioni, tra cui la prima risiede nel fatto che il medico ha il dovere di dare la morte al paziente se questi ne fa richiesta. E laddove c’è un dovere, da qualche parte c’è un diritto. Perciò dato che il medico dovrà aiutare Tizio a morire se Tizio lo chiederà, ne consegue che Tizio è titolare del diritto di essere aiutato a morire».
In terzo luogo la presunta depenalizzazione si verifica qualora si rispetta, tra le altre cose, un certo iter, un certo protocollo. Ma, come già ricordato in un altro articolo, il rispetto di un protocollo si confà maggiormente, seppur non esclusivamente, all’esercizio di un diritto piuttosto che ad una condotta non più penalmente rilevante. Vedasi legge 194 per l’aborto procurato.
In quarto luogo lo scorso novembre il Tribunale di Trieste ha ordinato all’Azienda sanitaria universitaria Giuliano Isontina, viste le sue resistenze, di avviare l’iter per far accedere una signora di 55 anni al suicidio medicalmente assistito. Ora non si può comandare una condotta depenalizzata, ma solo un obbligo giuridico. Ma laddove c’è un obbligo, come già accennato, vuol dire che in capo a qualcuno c’è un diritto, il diritto di essere aiutato a morire.
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