Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
LA SENTENZA DELLA CONSULTA

Eutanasia, nessuno strappo. Questo ok arriva da lontano

La decisione della Consulta discende logicamente da alcune premesse giurisprudenziali e normative. Non è una fuga in avanti. Il peccato originale da cui scaturisce la sentenza della Corte costituzionale è già stato compiuto nel passato e noi oggi ne patiamo “solo” le amare conseguenze. Le premesse sono la legge sulle Dat e le sentenze nel nome dell'autodeterminazione. 

Attualità 27_09_2019

La sentenza della Consulta (clicca qui) a ben vedere non ha depenalizzato, seppur parzialmente, il reato di aiuto al suicidio, bensì lo ha legittimato. Ci spieghiamo meglio. Una cosa è dire: “Non ti metto in carcere se tu compi X”. Un’altra è dire: “Hai tutto il diritto di compiere X”.

Possiamo dire che da oggi esiste un vero e proprio diritto all’aiuto al suicidio essenzialmente perché la Consulta ha inserito l’aiuto al suicidio nella legge 219/2017, la cosiddetta legge sulle Dat, nella quale le pratiche eutanasiche sono intese come veri e propri diritti per più motivazioni, tra cui la prima risiede nel fatto che il medico ha il dovere di dare la morte al paziente se questi ne fa richiesta. E laddove c’è un dovere, da qualche parte c’è un diritto. Perciò dato che il medico dovrà aiutare Tizio a morire se Tizio lo chiederà, ne consegue che Tizio è titolare del diritto di essere aiutato a morire.

Ma come siamo arrivati a questo punto? Da dove arriva questa pronuncia della Corte costituzionale? La sentenza non nasce come un fungo, dall’oggi al domani, nel sottobosco del nostro ordinamento, ma è stata preparata con cura da molti anni. Insomma arriva da lontano e rappresenta così la conclusione logica di un percorso costituito almeno da due tappe importanti.

Vediamo dunque quali sono state le premesse giuridiche di questa sentenza. Partiamo da quella a noi più vicina nel tempo: la legge 219/2017. Quest’ultima legittima sia l’eutanasia omissiva che quella commissiva ma per il tramite essenzialmente solo di tre condotte: il rifiuto da parte del paziente di iniziare terapie salvavita tra cui l’alimentazione, l’idratazione e, anche se non espressamente prevista dal testo di legge, la ventilazione assistita; la richiesta da parte del paziente di interrompere i suddetti presidi vitali già posti in essere; la sedazione profonda del paziente, tanto profonda da bloccargli i centri del respiro.

Il ragionamento che hanno articolato i giudici della Consulta nell’ottobre del 2018, allorché emisero l’ordinanza n. 207, e che è stato confermato due giorni fa è il seguente: permettere ex lege 219 ad un paziente di morire di fame e di sete e non permettergli invece di morire tramite il suicidio assistito - che tra l’altro è pratica meno dolorosa - è irrazionale, è contraddittorio. Se è legittima l’eutanasia, che sia legittima in tutte le sue forme. Sarebbe altresì discriminatorio consentire l’eutanasia solo ai pazienti la cui sopravvivenza dipende dai macchinari e non a tutti gli altri.

Ecco infatti cosa hanno scritto nero su bianco i giudici nell’ottobre del 2018 quando sollecitarono il Parlamento ad intervenire sull’art. 580 cp che sanziona l’aiuto al suicidio: “Se, infatti, il cardinale rilievo del valore della vita non esclude l’obbligo di rispettare la decisione del malato di porre fine alla propria esistenza tramite l’interruzione dei trattamenti sanitari – anche quando ciò richieda una condotta attiva, almeno sul piano naturalistico, da parte di terzi (quale il distacco o lo spegnimento di un macchinario, accompagnato dalla somministrazione di una sedazione profonda continua e di una terapia del dolore) – non vi è ragione per la quale il medesimo valore debba tradursi in un ostacolo assoluto, penalmente presidiato, all’accoglimento della richiesta del malato di un aiuto che valga a sottrarlo al decorso più lento – apprezzato come contrario alla propria idea di morte dignitosa – conseguente all’anzidetta interruzione dei presidi di sostegno vitale”. In sintesi: la legittimazione del suicidio assistito si pone come conclusione giuridicamente necessaria della premessa, contenuta nella legge 219, che legittima l’eutanasia ma solo in alcune sue modalità attuative.

Poi esiste un’altra premessa alla legittimazione dell’aiuto al suicidio che ha carattere giurisprudenziale, ossia è frutto del lavoro dei giudici. Fino a qualche decennio or sono, l’atto di un medico veniva considerato di natura terapeutica in accordo al principio oggettivo di beneficialità, ossia se quell’atto per sua natura tendeva alla guarigione o alla cura della persona. Poi arrivarono i giudici che, interpretando malamente l’art. 32 della Costituzione, sostituirono il principio di beneficialità con quello soggettivo di autodeterminazione: l’atto medico è terapeutico solo se c’è il consenso del paziente, altrimenti può essere derubricato a violenza privata, lesioni, omicidio, etc. a seconda dei casi. In tal prospettiva, e stravolgendo il significato dell’art. 32 Cost., il paziente aveva il diritto di curarsi o di non curarsi, di salvarsi la pelle o di morire.

Questa interpretazione, come ha ricordato almeno in due passaggi la stessa Consulta nell’ordinanza appena citata, si è cristallizzata perfettamente nella legge 219, dove al comma 2 dell’art. 2 esplicitamente si afferma che “la relazione di cura […] si basa sul consenso informato”. Dunque è il consenso, la volontà del paziente che qualifica l’azione del medico come atto terapeutico. Quindi se è volontà del paziente morire, tramite ad esempio il distacco del respiratore, morire diventa atto terapeutico. Ora, se morire è atto terapeutico e se la cura è un diritto, ne consegue che esiste il diritto a morire. Così la Consulta: “Il diritto all’autodeterminazione individuale, previsto dall’art. 32 Cost. con riguardo ai trattamenti terapeutici, è stato, d’altronde, ampiamente valorizzato prima dalla giurisprudenza e poi dal legislatore, con la recente legge 22 dicembre 2017, n. 219 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento), che sancisce l’obbligo di rispettare le decisioni del paziente, anche quando ne possa derivare la morte”.

Ma se questo diritto a curarsi e a non curarsi fino alla morte è, come è, di rango costituzionale, non può conoscere limitazioni di sorta alcuna, comprese le modalità per esercitare tale diritto. Dunque perché limitare l’esercizio del diritto a morire solo all’interruzione di alimentazione, idratazione e ventilazione ed escludere ad esempio il suicidio assistito (e un domani l’iniezione letale)? Sarebbe incongruo.

Ecco dunque che la decisione della Consulta discende logicamente da alcune premesse giurisprudenziali, più remote, e da altre di carattere normative, a noi prossime. Non è perciò una fuga in avanti, uno strappo incomprensibile, né tantomeno entra in rotta di collisione con il rimanente quadro legislativo e giurisprudenziale. In breve, il peccato originale da cui scaturisce la sentenza della Corte costituzionale è già stato compiuto nel passato e noi oggi ne patiamo “solo” le amare conseguenze.