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LA SENTENZA

Caso Cappato, dare la morte diventa una procedura

Suicidio di Dj Fabo, la Corte d’Assise di Milano deposita le motivazioni dell’assoluzione di Marco Cappato. Il leader radicale viene assolto perché la vicenda ricalca le condizioni indicate a settembre dalla Consulta, che a sua volta aveva deciso prendendo il caso Cappato a paradigma. La sentenza dei giudici milanesi riduce l’eutanasia a una dimensione procedimentale, in cui la forma conta più della sostanza

Editoriali 31_01_2020

Ieri la Corte d’Assise di Milano ha depositato le motivazioni della sentenza di assoluzione a favore di Marco Cappato che aveva accompagnato Dj Fabo a morire in Svizzera nel febbraio del 2017.

Cappato non finirà dietro le sbarre perché, proprio a motivo del processo intentato contro il leader radicale, la Corte costituzionale è intervenuta sull’art. 580 del codice penale che sanziona l’aiuto al suicidio, legittimandolo al verificarsi di alcune condizioni, condizioni presenti nel caso Cappato secondo i giudici di Milano. Tali circostanze, indicate dalla Consulta, sono state così evidenziate dai giudici milanesi: «Le emergenze istruttorie hanno dimostrato che Marco Cappato ha aiutato Fabiano Antoniani a morire, come da lui scelto, solo dopo aver accertato che la sua decisione fosse stata autonoma e consapevole, che la sua patologia fosse grave e irreversibile e che gli fossero state prospettate correttamente le possibili alternative». Inoltre la patologia da cui era affetto era «fonte di sofferenze fisiche e psicologiche che trovava assolutamente intollerabili».

Come accennato, le condizioni verificatesi nel caso Cappato si sovrappongono a quelle indicate dalla sentenza della Consulta, che recita: «L’art. 580 cod. pen. deve essere dichiarato, dunque, costituzionalmente illegittimo […] nella parte in cui non esclude la punibilità di chi, con le modalità previste dagli artt. 1 e 2 della legge n. 219 del 2017, […] agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli».

Esiste poi un altro requisito di carattere non più soggettivo, bensì oggettivo, che deve essere presente per accedere all’aiuto al suicidio: è necessario che «tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente». In breve, la verifica della presenza delle condizioni di accesso al suicidio assistito non ricade sotto l’arbitrio del paziente, del medico e dei familiari, ma compete a un comitato etico e a una struttura pubblica del SSN. Ora, questo ultimo requisito di carattere oggettivo - la verifica di terzi delle condizioni legittimanti l’eutanasia tramite suicidio assistito - parrebbe che sia mancante nel caso del decesso di Dj Fabo, dato che è morto all’estero, quindi senza il placet di un ospedale pubblico italiano.

La soluzione si può trovare in un passaggio della decisione della Consulta del settembre scorso che ha legittimato l’aiuto al suicidio: «Rispetto alle condotte già realizzate, il giudice valuterà la sussistenza di condizioni sostanzialmente equivalenti a quelle indicate». Per accedere al suicidio assistito in Svizzera occorre che la domanda riceva il placet di una commissione medica. Tale condizione pare sovrapporsi, anche se non perfettamente, a quella appena indicata: occorre cioè che vi sia un organo terzo vigilante. Una soluzione che parrebbe necessaria per legittimare quei casi di aiuto al suicidio dove il decesso è avvenuto all’estero. Però, c’è da aggiungere che la commissione medica elvetica verifica la sussistenza di alcune delle condizioni - quindi non tutte - previste dalla Consulta.

Di fronte a questo inciampo, coloro che plaudono alla decisione della Consulta e all’assoluzione di Cappato potrebbero trovare questa scappatoia: la Corte costituzionale non ha chiesto ai giudici che stanno esaminando casi sottoposti a processo che le condizioni indicate dalla Consulta stessa siano perfettamente coincidenti con quelle verificatesi nelle vertenze in corso di giudizio, bensì ha chiesto «la sussistenza di condizioni sostanzialmente equivalenti a quelle indicate». Tale espressione risulta alquanto problematica in ambito penale perché confliggente con il principio di tassatività, che obbliga il legislatore a determinare con precisione la fattispecie legale, e con il relativo principio di tipicità, secondo il quale è reato solo quella condotta espressamente prevista come tale dalla legge, escludendo così l’analogia legis. Vero è che tali principi si applicano al legislatore e non ai giudici, ma i magistrati della Corte costituzionale, dato che il Parlamento era rimasto inerte, hanno giocato a fare i legislatori e quindi tali principi si potrebbero applicare anche al loro operato.

Comunque sia, tutte queste non sono altro che sottigliezze. Infatti, la Consulta ha volutamente preso il caso Cappato come paradigma a cui ispirarsi per legittimare l’eutanasia tramite l’aiuto al suicidio. E dunque, nella realtà dei fatti giuridici, non sono tanto le circostanze verificatesi nel caso Cappato che si devono identificare con quelle indicate dalla Consulta, bensì è avvenuto esattamente l’opposto: è stata la Consulta a ricalcare le condizioni legittimanti l’aiuto al suicidio dal caso Cappato, le ha prese a prestito da lì. E perciò il caso Cappato in futuro fungerà da modello per casi analoghi, da padre (ig)nobile di tutte le future cause giudiziali simili e di tutti i procedimenti eutanasici in forma di aiuto al suicidio che si verificheranno in Italia.

Un ultimo appunto. Nelle motivazioni redatte dalla Corte di assise di Milano le condizioni legittimanti l’aiuto al suicidio vengono definite come requisiti procedimentali. Dunque, la condotta si qualifica come penalmente rilevante se non si rispettano alcune procedure, quasi che l’ambito penale venga assorbito in quello proprio del diritto amministrativo. In buona sostanza, ciò che vogliamo sottolineare sta nel fatto che l’eutanasia viene ridotta a una dimensione procedimentale, un protocollo medico. Così come un medico, che si deve cimentare in un’operazione chirurgica, passa dei guai se non rispetta una certa procedura prevista dall’ospedale, un certo protocollo, parimenti accadrà per il suicidio assistito. Che in effetti, se prendiamo a prestito le categorie giuridiche presenti nella legge sulla Dat, diventa terapia, laddove fosse voluta dal paziente, e come tale deve inserirsi in un protocollo clinico.

Dare la morte diventa quindi un diritto quando si rispetta una certa procedura, né più né meno come è accaduto per l’aborto con la legge 194 e per la fecondazione extracorporea con la legge 40. Se rispetti la procedura semaforo verde, altrimenti non puoi passare. Dunque - ed è l’aspetto che vogliamo mettere in evidenza - il fattore formale prevale su quello sostanziale. Non è tanto rilevante la questione dell’eutanasia in sé, se è giusta o sbagliata: non è importante il che cosa tu medico abbia fatto, bensì diventa rilevante il modo in cui hai procurato l’eutanasia, diventa importante il come tu medico lo abbia fatto.

Attualmente si discute ancora di libertà della persona, di dignità nel morire, di sofferenza, eccetera - tutti elementi di merito, di contenuto, sostanziali - ma nel giro di poco tempo state pur certi che la prospettiva indicata dai giudici di Milano sarà sposata dai più. E così l’eutanasia sarà per tutti lecita se avrà rispettato alcune regole, illecita in caso contrario. Come se si stesse parlando della rottamazione di un’auto.