Terra Santa: le minacce non spengono la presenza dei cristiani
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In mezzo ad aggressioni e intimidazioni, i seguaci di Cristo in Israele seguono l'invito del patriarca Pizzaballa a non abbandonare i luoghi della salvezza. Una minoranza soggetta a continue ostilità che non cessa di offrire una testimonianza viva della luce della Risurrezione.

«Non dobbiamo avere paura di quanti vogliono dividere, di quanti vogliono escludere o vogliono impossessarsi dell’anima di questa città santa, perché da sempre e per sempre Gerusalemme resterà casa di preghiera per tutti i popoli, e nessuno la potrà possedere. Continuo a ripetere, noi apparteniamo a questa città e nessuno ci può separare dal nostro amore alla città santa, così come nessuno ci può separare dall’amore di Cristo». Sono parole decise, risolute, quelle pronunciate in un messaggio che il patriarca di Gerusalemme dei Latini, il cardinale Pierbattista Pizzaballa, ha indirizzato a tutti i fedeli della sua diocesi, in occasione dell’inizio della Settimana Santa.
Un implicito, ma fermo invito rivolto ai cristiani a non abbandonare la Terra Santa, i luoghi dove risiedono da oltre duemila anni, seguendo le orme di colui che si è fatto uomo, è morto e risuscitato per la salvezza di tutti, proprio in questa terra. Per i cristiani che vivono in Terra Santa, in effetti, la vita è sempre più difficile. Lo era prima dell’inizio del conflitto tra Israele e Hamas, lo è tutt’oggi, dopo un anno e mezzo di orrenda e feroce guerra che sta provocando la morte di migliaia di palestinesi. Ma non solo guerra, numerosi sono i casi di attacchi e aggressioni; la maggior parte riguardano gli individui, ma vengono anche prese di mira le chiese, i monasteri e perfino le indicazioni per i luoghi santi.
Parlare di caccia al cristiano è, fortunatamente, ancora presto. Ma ammettere che la minaccia contro i seguaci di Cristo sia in aumento non è eccessivo. Basti citare i dati resi pubblici dall’associazione Rossing Center, un’organizzazione nata per il dialogo e la pace tra le varie confessioni religiose, che da anni segue l’aumento delle intemperanze contro i cristiani, sia in Israele che in Palestina.
Secondo il rapporto di questa organizzazione, i responsabili di questi atti intimidatori e violenti vengono solitamente individuati. Sono giovani ebrei ultraortodossi, seguaci di un estremismo d’ispirazione nazional-religiosa, che non perdono occasione per mettere in difficoltà i cristiani.
Un esempio recente: un’auto, facilmente individuabile perché esponeva un rosario appeso allo specchietto retrovisore, con a bordo dei cristiani, stava percorrendo la strada che da Beit Sahour porta a Gerusalemme. Il mezzo viene sorpassato e i passeggeri fatti oggetto di un ripetuto suono acustico, senza alcun motivo. Il giovane, alla guida dell’auto sopraggiunta, inizia a gesticolare in modo poco civile. Non soddisfatto, si ferma, accosta la macchina e avvicinandosi al guidatore inizia ad insultarlo senza alcuna ragione, poi, proseguendo con gli improperi, risale e riparte, dando però la possibilità, all’auto presa di mira di sorpassarlo e raggiungere per prima il posto di controllo, dove, ad alta voce, invita la soldatessa di turno a controllare attentamente le persone e magari fermarle. Fortunatamente l’intento di questo giovane ed arrogante ebreo è andato a vuoto: infatti, dopo un’attenta verifica dei documenti dei viaggiatori, il militare è stato costretto a dare il via libera.
Di casi come questi se ne possono raccontare tanti. I cristiani vivono tra l’incudine e il martello. Nella sola città di Gerusalemme risiedono oltre 590.000 ebrei, che rappresentano il 61% della cittadinanza, mentre gli arabi raggiungono le 380mila unità; ma di questi, solamente 13.000 sono cristiani; il rapporto tra musulmani e cristiani palestinesi, a Gerusalemme, è del 96% contro il 4%. Ma la cosa più rilevante è che il 29% dei cittadini della città santa si qualifica come “ebreo ortodosso”. La popolazione israeliana, alla fine dello scorso anno, ha raggiunto la cifra di circa 10milioni. Di questi, 7 milioni e settecentomila sono ebrei, mentre due milioni e 100mila sono palestinesi. I cristiani che vivono in Israele sono appena 180mila, e l’80% è di etnia araba, rappresentando appena il 7% dell’intera popolazione palestinese d’Israele.
Nonostante le angherie che subiscono, le difficoltà nell’ottenere i permessi per spostarsi da una località all’altra, la mancanza del rinnovo delle autorizzazioni di soggiorno, i cristiani continuano a vivere in Terra Santa. «Noi siamo qui, cristiani locali e pellegrini, tutti insieme, per dire con forza che non abbiamo paura. Siamo i figli della luce e della risurrezione, della vita. Noi speriamo e crediamo nell’amore che vince su tutto», è solito dire il patriarca della Chiesa Madre, il cardinale Pizzaballa.
Sono, invece, 230mila gli ebrei che risiedono a Gerusalemme Est, convivendo con almeno 360mila palestinesi. Entrambi, però, vogliono Gerusalemme come capitale del loro futuro stato. Si tratta, naturalmente, di una questione che provoca forti tensioni. Gli scontri, gli arresti servono solamente ad allontanare ulteriormente i cristiani, ovvero quelli che si schierano con i palestinesi a causa delle loro radici arabe. In assenza di politiche che incoraggiano la pluralità e la diversità di credo e mentre lo Stato legifera e favorisce solamente un gruppo, i cristiani di Terra Santa sono anche minacciati dall’imposizione di tasse e dalla forza dei soldati che impugnano le armi. Va anche detto che le proprietà dei cristiani stanno diminuendo notevolmente nella città vecchia di Gerusalemme, da parte ebraica viene utilizzato ogni tipo di strumento che li costringe ad andare via.
In oltre un anno e mezzo di ostilità tra Israele e il gruppo terroristico di Hamas prevale la disillusione in entrambi i popoli, sia tra gli israeliani che tra i palestinesi. Molti lasciano la Terra Santa. Per gli ebrei è molto più semplice perché, spesso, sono in possesso di un passaporto straniero; mentre per i palestinesi e i cristiani andare via è molto più complicato. Si vedono costretti a questa scelta, non tanto per se stessi, ma per i loro figli, che rischierebbero di crescere in un contesto in cui non si intravede un futuro diverso dalla guerra. A mancare sono le alternative. Così, per quanto possa suonare paradossale, alla fine questa terra, tanto contesa, rischia di diventare un luogo dove pochi vogliono vivere.
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