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LA SENTENZA

Stati Uniti, pillole abortive: in Appello è vittoria pro vita

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La Corte d’Appello per il Quinto Circuito boccia le pillole abortive via posta e l’ampia liberalizzazione del 2016. Sottolineato il gran numero di effetti avversi per le donne. Un verdetto che può divenire uno spartiacque per la difesa dei nascituri.

Attualità 18_08_2023

«Nell’allentare le restrizioni sulla sicurezza del mifepristone, la Food and Drug Administration (Fda) ha omesso di affrontare diverse importanti preoccupazioni sulla sicurezza del farmaco per le donne che lo usano». È quanto si legge nelle conclusioni della Corte d’Appello per il Quinto Circuito degli Stati Uniti, che mercoledì 16 agosto, nel caso Alleanza per la Medicina Ippocratica contro Food and Drug Administration, ha emesso una sentenza che potrebbe rappresentare (dopo l’annullamento della Roe contro Wade) un altro spartiacque nella battaglia tra il fronte pro aborto e quello pro vita. Il condizionale è d’obbligo perché il verdetto unanime dei tre giudici Jennifer Walker Elrod, James Ho e Cory Wilson non entrerà in vigore prima del riesame della Corte Suprema. Ma se quest’ultima dovesse confermare il giudizio, la conseguenza sarebbe quella di ridurre significativamente il numero degli aborti negli USA, per una percentuale stimabile in circa il 15%, secondo quanto dichiarato dal pro life americano Jim Harden.

Il verdetto mette a nudo la sconsideratezza con cui la Fda, negli anni compresi tra il 2000 e il 2021, ha prima autorizzato e poi progressivamente esteso il regime di aborto chimico a base di mifepristone (e, solitamente in seconda battuta, misoprostolo), fino all’assurdo permesso – dietro la spinta dell’amministrazione Biden e con il pretesto del Covid – di spedire le pillole abortive via posta, senza neanche una visita medica in presenza.

La Corte d’Appello ha in parte cassato e in parte sostenuto le decisioni prese nell’aprile di quest’anno dal giudice federale del Distretto Settentrionale del Texas, Matthew Kacsmaryk. Nello specifico, i tre giudici d’Appello sostengono la richiesta di proibire la vendita via posta del mifepristone, liberalizzata nel 2021; e chiedono inoltre che sia per il Mifeprex (il nome commerciale del mifepristone negli Stati Uniti, prodotto che da noi prende il nome di Mifegyne) sia per la sua versione generica (approvata nel 2019) si rispettino i limiti esistenti prima dell’ampia liberalizzazione del 2016, sotto Obama.

I cambiamenti del 2016 includevano: l’innalzamento, da 49 a 70 giorni, dell’età gestazionale entro cui è consentito assumere il mifepristone; la possibilità che la prescrizione venga fatta da personale non medico; l’eliminazione dell’obbligo per i prescrittori di riportare gli effetti avversi non mortali; il cambiamento del dosaggio del mifepristone e del misoprostolo; e ancora, riguardo a quest’ultimo, la cancellazione del requisito di somministrarlo e di fare la successiva visita di controllo in presenza di chi lo ha prescritto.

In sostanza, la liberalizzazione del 2016 ha contribuito ad aumentare il numero di bambini uccisi attraverso l’aborto chimico (che ad oggi riguarda oltre la metà di tutti gli aborti negli Stati Uniti) e ad accrescere comprensibilmente il numero di complicazioni per le donne, a dispetto del tentativo di nascondere – con il venir meno dell’obbligo di cui sopra – la reale entità degli effetti avversi. Al riguardo, i giudici d’Appello notano che già le percentuali citate dalla Fda nella sua nota di approvazione del mifepristone nel 2000, se applicate al numero di donne che hanno assunto il Mifeprex da allora ai giorni nostri (oltre cinque milioni, secondo la stessa Fda e Danco Laboratories, l’azienda che distribuisce la pillola abortiva), «mostrano che migliaia di donne, e addirittura centinaia di migliaia, hanno sperimentato gravi effetti avversi a causa dell’assunzione del farmaco e richiesto un intervento chirurgico o cure di emergenza per trattare tali effetti» (p. 16).

Pur riconoscendo il problema all’origine del via libera al mifepristone, la sentenza non si spinge a cassare l’approvazione del 2000 da parte della Fda, ritenendo che tale possibilità sia «probabilmente preclusa» dalla prescrizione dei termini legali. Ma rispetto a questo punto, il giudice James Ho ha scritto un’opinione di minoranza, per dire che anche l’approvazione del mifepristone nel 2000 dovrebbe essere annullata, perché viola le regole della stessa Fda. Un’opinione, questa, in linea con quanto già espresso ad aprile dal giudice Kacsmaryk, che ricordava come l’agenzia del farmaco statunitense abbia a lungo boicottato la revisione giudiziaria della questione. Infatti, la Fda ha fatto passare quasi 14 anni per rispondere alla prima petizione presentata (già nel 2002) da Alliance Defending Freedom, il gruppo che nella causa attuale rappresenta gli interessi legali dell’Alleanza per la Medicina Ippocratica e di altre associazioni e medici pro vita, per un totale di circa 30 mila operatori sanitari. E la Fda ha giocato sul tempo in barba alla legge, che richiede una risposta entro 180 giorni da quando viene ricevuta la petizione.

Tornando alla sentenza e al progressivo rilassamento delle norme sul mifepristone, i giudici notano che la Fda «ha mancato di considerare l’effetto cumulativo di rimuovere contemporaneamente diverse importanti misure di sicurezza. (…) E non è riuscita a raccogliere prove che dimostrassero affermativamente che il mifepristone potesse essere usato in sicurezza senza essere prescritto e dispensato di persona» (p. 62).

Ancora più perentorio il giudizio sulle modalità arbitrarie con cui la Fda ha autorizzato nel 2021, prima in via temporanea e poi definitiva, la prescrizione del mifepristone attraverso la telemedicina. L’agenzia aveva motivato la sua decisione basandosi sui dati (incompleti) presenti nel suo sistema di segnalazione, e questo dopo aver rinunciato a quella che «è forse la migliore fonte di dati: i prescrittori», come scrivono i giudici. I quali poi affondano il dito nella piaga delle contraddizioni della Fda: «È irragionevole per un’agenzia eliminare un obbligo di segnalazione per una cosa e quindi utilizzare la conseguente assenza di dati per sostenere la sua decisione» (p. 62).

Un modo di fare, quello dell’agenzia del farmaco statunitense, che conferma come certi enti – a livello nazionale e sovranazionale (si pensi all’Oms) – prendano decisioni spesso motivate politicamente, spacciandole per scienza. Che poi è la stessa “scienza” opaca con cui la Ru486 sta sempre più venendo liberalizzata nel nostro Paese (vedi le linee guida del 2020, sotto il ministro Speranza), a maggior danno per donne e bambini.



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