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IL CASO

Restrizioni all'aborto, la Cina ha paura della denatalità

Varate dal governo cinese le nuove linee guida che restringono la possibilità di abortire allo scopo di favorire un maggior numero di nascite. La Cina infatti si ritrova a fare i conti con i disastri sociali ed economici della politica di controllo delle nascite. Una lezione anche per l'Occidente, dove l'aborto è un tabù.

Editoriali 19_08_2022

In Cina l'Autorità nazionale per la sanità ha emanato nuove linee guida sull'aborto, in cui si raccomanda alle strutture ospedaliere di ridurre in ogni modo gli aborti che non siano «necessari dal punto di vista medico». Questa interpretazione molto più restrittiva della liceità dell'interruzione di gravidanza viene esplicitamente motivata dall'ente di Stato di Pechino con la preoccupazione per l'invecchiamento sempre più rapido della popolazione e la crescente difficoltà di gestire il sistema previdenziale.

La decisione presa dal regime cinese rappresenta una svolta storica nella politica demografica del gigante asiatico, e assume una enorme importanza anche in prospettiva mondiale, in quanto essa per molti versi chiude una lunga epoca di assoluto predominio di un'ideologia antinatalista e filo-abortista affermatasi a partire dall'Europa dai primi decenni del Novecento in poi, che a sua volta affondava le radici nelle teorie tardosettecentesche di Malthus sul controllo della popolazione.

L'aborto venne legalizzato per la prima volta con il sorgere della prima dittatura totalitaria, nell'Unione sovietica nel 1920, e successivamente nella Germania hitleriana e in alcuni stati scandinavi. Le motivazioni erano, nel primo caso, l'ideale di una totale uguaglianza tra uomini e donne, in vista della quale la maternità veniva considerata come un potenziale ostacolo; nel secondo la deriva eugenetica volta al "miglioramento" della razza attraverso la soppressione di individui e progenie "difettosi". Dagli anni Sessanta in avanti, poi, in Occidente la liberalizzazione dei costumi sessuali e il femminismo avrebbero dato una nuova, potente spinta alla legittimazione dell'aborto, rivendicata sempre più, insieme alla contraccezione, come componente essenziale di una libertà individuale totale, scissa dalle responsabilità e dalle gerarchie familiari.

Nel frattempo, nei grandi paesi dell'allora "terzo mondo" (Cina, India, Africa decolonizzata), popolati da grandi masse ancora alle prese con i problemi della sussistenza, le classi dirigenti locali, all'unisono con gran parte di quelle occidentali, individuavano il controllo delle nascite come strumento necessario a frenare la crescita della popolazione, consentendo così il successo di ambiziosi programmi di modernizzazione e sviluppo economico. Obiettivo che venne talvolta perseguito (come nell'India di Indira Gandhi) anche attraverso campagne di sterilizzazione imposte alle classi più povere. E che venne fatto proprio sostanzialmente, nel tempo, anche dall'Onu e dalle altre organizzazioni internazionali a essa collegate, le quali – anche sotto l'influsso del nascente ambientalismo e del rinnovato malthusianesimo portato avanti da circoli come il Club di Roma – cominciarono a cercare di imporre in ogni modo nei paesi del terzo mondo politiche di cosiddetta "salute riproduttiva", cioè di diffusione e propaganda capillare di contraccettivi e aborti. 

In Cina dopo l'avvento del maoismo l'interruzione di gravidanza venne legalizzata con molti limiti. Ma una svolta molto più permissiva in tal senso venne adottata proprio dopo la fase del collettivismo, nell'epoca in cui le riforme varate da Deng Xiaoping costruivano quell'ordinamento ibrido tra dittatura comunista ed economia di mercato destinato a trasformare la Cina nella potenza economica dominante nel mondo insieme agli Stati Uniti. Fu infatti nel 1980 che il regime di Pechino varò la "politica del figlio unico", che imponeva a tutte le coppie del paese di non generare più di un bambino. Un sistema al limite dell'infanticidio di Stato, che prevedeva, in caso di gravidanze non "legali", oltre a pesanti sanzioni e a possibile perdita del lavoro, aborti obbligati, praticati con la forza in caso di rifiuto, anche in prossimità del parto, e sequestro dei neonati “frutto della colpa” per darli in adozione.
E che ha generato un ulteriore effetto perverso: il dilagare degli aborti selettivi, favoriti dalla diffusione della diagnostica prenatale e dal conseguente frequente “scarto” delle femmine a favore dei maschi, ritenuti un “investimento” migliore per il futuro dei genitori.

La politica del figlio unico è rimasta in vigore fino al 2013, quando le autorità del paese hanno dovuto ammettere che il freno alla generazione, lungi dal consentire una maggiore prosperità collettiva e la disponibilità di maggiori risorse, causava invece un rallentamento della crescita, e maggiori problemi sociali. A partire dalla grande crisi mondiale del 2008 l'economia cinese ha progressivamente esaurito la spinta impetuosa del Pil che l'aveva caratterizzata nei decenni precedenti, il mercato interno ha dato segni di stanchezza, la "bolla" immobiliare si è ampiamente sgonfiata, ed è cominciato ad emergere in tutta la sua serietà il problema di una popolazione anziana sempre più numerosa, più sola e più priva di assistenza, proprio per l'assenza dei figli. Da qui l'allentamento della stretta con la “concessione” del secondo figlio a coppia, e successivamente del terzo.

Le nuove linee guida più severe sull'aborto – già anticipate l'anno scorso da un documento del Consiglio di Stato – sono il coronamento di questo percorso. La Cina guarda in faccia la realtà, e si accorge che i miti del secolo scorso in tema di popolazione hanno fatto soltanto del male, trasformandosi col tempo in una vera e propria nemesi, portatori di stagnazione e impoverimento. Significativamente, nel 2020 la popolazione dell'Impero di mezzo è stata raggiunta da quella dell'India, che si avvia a sostituirla come paese più popoloso del mondo, e al contempo le stime della Banca Mondiale vedono per i prossimi anni l'economia di Nuova Delhi proiettata verso una crescita decisamente superiore a quella di Pechino.

La vicenda delle politiche cinesi sul controllo delle nascite e sull'aborto, dunque, ha un valore paradigmatico non solo per quel paese, ma per tutti i paesi industrializzati. A partire da quelli occidentali, dove l'aborto è oggi ancora quasi ovunque un tabù intoccabile dell'ideologia progressista relativista, che lo rivendica come “diritto” benché esso sia assente da ogni costituzione e con i princìpi di esse confligga inesorabilmente. Presto o tardi anche quei paesi – in cui la curva demografica e il tasso di fertilità flettono sempre più drammaticamente – saranno costretti a prendere atto del fatto che la crescita, il benessere, la produzione di ricchezza sono a lungo andare inscindibili dalla crescita delle popolazioni, e dal mantenimento in esse di un equilibrio tra giovani e anziani.