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Reazioni al "caso FSSPX": è in gioco la natura della Chiesa

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Tra i commenti ricevuti, non sempre benevoli, emerge il fraintendimento di un aspetto fondamentale: l'appartenenza o meno al Corpo mistico passa anche attraverso la sua struttura giuridica.
- Il dossier sul caso FSSPX

Ecclesia 24_08_2023

Ad emergere in modo preoccupante nelle repliche, spesso scomposte, al dossier della Bussola sulla Fraternità Sacerdotale San Pio X è l’insufficiente comprensione della natura della Chiesa e dell’appartenenza al Corpo mistico di Cristo. Pio XII nell’enciclica Mystici Corporis insegnava che la natura giuridica della Chiesa è l’espressione della dimensione visibile della Chiesa. Ed è nell’unione della dimensione visibile ed invisibile che la Chiesa «presenta una perfettissima immagine di Cristo», il quale “nascondeva” la sua divinità invisibile nell’umanità visibile: Dio agiva mediante la carne assunta. Qui si radica la sacramentalità della Chiesa, così come la sua azione sacramentale. Ora, sottolinea ancora Pio XII, è proprio «in virtù di quella missione giuridica per la quale il divin Redentore mandò nel mondo gli Apostoli come egli stesso era stato mandato dal Padre», che Cristo continua ad agire tramite la Chiesa.

Chi ci accusa di essere formalisti, legalisti, non comprende il senso della struttura giuridica della Chiesa. Ed è in ragione di questa dimensione essenziale che mai la Chiesa ha approvato l’esercizio del ministero clericale “slegato” dalla sua struttura giuridica. La posta in gioco non è semplicemente canonica, ma di fede. Ed è bene ricordare che le norme canoniche scaturiscono non solo dalla giustizia, ma spesso e volentieri dai dogmi della fede. Così come è da tenere presente che la costante disciplina canonica è sempre stata considerata come un locus theologicus, ossia un elemento della sacra Tradizione. Pensiamo, tra le tante attestazioni di questa verità, al fatto che Giovanni Paolo II si riferì proprio alla costante pratica della Chiesa per sostenere l’impossibilità di ordinare delle donne. La logica secondo cui, siccome l’elezione dei vescovi è questione disciplinare, allora non riguarda la fede, è decisamente sbagliata; e, ironia della sorte, si pone nella stessa linea del presente pontificato che ha sganciato completamente tra loro prassi e dottrina.

L’istituzione di un vescovo è prerogativa del Papa: non si è vescovi cattolici semplicemente con la consacrazione (come non si è sacerdoti cattolici solo con l’ordinazione). E nemmeno semplicemente con la dottrina. Qualcuno ha questionato sul fatto che l’obbligatorietà della nomina dei vescovi da parte del Papa sia contraddetta dalla storia. Abbiamo già avuto modo di distinguere la modalità di elezione dalla nomina; e parimenti nessuno intende sostenere che debba essere il Papa in persona a consacrare. Nemmeno è richiesto che questa designazione del vescovo provenga esplicitamente dal Papa, ma è assolutamente chiaro che nessuno può consacrare un vescovo contro la volontà del Papa e nessuno può essere considerato un vescovo cattolico se il Capo del Collegio episcopale non lo accoglie nel Collegio. Questo è un aspetto chiave del primato del Papa, da cui deriva anche la sua potestà di deporre un vescovo, ovunque si trovi. Un pontefice può certamente abusare di questo suo potere, ma, come si suol dire, l’abuso non toglie l’uso.

È proprio perché si va contro la legge divina e non quella semplicemente umana, che il Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi, nella Nota sulla scomunica per scisma in cui incorrono gli aderenti al movimento del Vescovo Marcel Lefebvre, chiariva che «non si dà mai una necessità di ordinare Vescovi contro la volontà del Romano Pontefice, Capo del Collegio dei Vescovi. Ciò infatti significherebbe la possibilità di “servire” la Chiesa mediante un attentato contro la sua unità in materia connessa con i fondamenti stessi di questa unità». Mai. Sostenere il contrario significherebbe pensare che Nostro Signore, disponendo in questo modo le cose, non sia stato in grado di prevedere tutte le situazioni e circostanze che si sarebbero verificate nella storia della sua Chiesa. Ecco perché rifarsi allo “stato di necessità” per andare contro un diritto divino è un controsenso.

Ci sono due lettere di papa Innocenzo I (+417) che attestano l’impossibilità di concepire l’episcopato senza la sua connessione con il Papa. Nella lettera 29, indirizzata al Concilio di Cartagine, egli parla della Sede Apostolica «a quo ipse episcopatus et tota auctoritas nominis hujus emersit» (PL 20, 583). L’episcopato e la sua autorità provengono dalla Sede Apostolica. Nella lettera successiva, indirizzata al Concilio di Milevi, il Pontefice afferma inoltre che i vescovi «ad Petrum (…) sui nominis et honoris auctorem referre debere» (PL 20, 590); Pietro è quindi l’autore sia del nome che della dignità dei vescovi.

Si potrebbero aggiungere anche altri testi che vanno nella stessa direzione: nei primi secoli, quando ancora non c’era tecnicamente il mandatum, né c’era un codice di diritto canonico che prevedeva sanzioni, era già chiaro che un episcopato contro la volontà del Papa è semplicemente una contraddizione; come risulta un nonsenso la teorizzazione della separazione tra potere d’ordine e potere di giurisdizione (separazione, non distinzione). Per la Chiesa la semplice questione della validità di un sacramento non è mai stata questione dirimente il fatto che lo si possa ricevere o esercitare. Un vescovo validamente consacrato contro la volontà del Papa semplicemente non è un vescovo cattolico.

Un altro chiarimento: supponiamo che la tesi della separazione tra potere d’ordine e giurisdizione sia possibile. Ne consegue che mons. Lefebvre non ha voluto trasmettere alcuna giurisdizione, come la FSSPX afferma. Ma allora, perché la FSSPX agisce come se l’avesse ricevuta dal Papa, mentre il Papa non solo non gliel’ha data, ma gliel’ha espressamente rifiutata? Lo stato di necessità non può dare alcuna giurisdizione: è di fede che la giurisdizione provenga solo dal Papa. Quali fonti magisteriali o della Tradizione può esibire la FSSPX per affermare che lo stato di necessità, per se stesso, conferisce la giurisdizione?

Dunque, perché mons. Lefebvre ha istituito – e la FSSPX continua ad avere – un Tribunale Canonico che usurpa i diritti di chi invece ha giurisdizione? Perché, a quanti si rivolgono a questi tribunali per ricevere una sentenza sulla validità del proprio matrimonio o sulla dispensa dai voti, si fa firmare una dichiarazione nella quale si promette «di non rivolgermi ad un tribunale ecclesiastico ufficiale per fargli esaminare o giudicare il mio caso», il tutto giurando con la mano sul Vangelo? Perché la Fraternità solleva i fedeli dal precetto domenicale che impone l’assistenza alla Messa, qualora questi non possano ricorrere a delle Messe nel rito antico? Perché impedisce ai propri sacerdoti ogni tipo di partecipazione attiva, inclusa quella di assistere in coro con la cotta, alle Messe con il rito riformato ed anche alle Messe in rito antico celebrate dai sacerdoti ex-Ecclesia Dei? Perché non ammette il culto pubblico dei santi canonizzati dai papi post-conciliari, per la ragione che tutto quello che viene dopo il Concilio è dubbio? Perché non accetta il Codice di Diritto canonico, rifiuta la Professio Fidei, e insegna essere dubbio tutto il Magistero dopo il Vaticano II? La lista, purtroppo, potrebbe continuare. Se ci sono cose che la FSSPX ha nel frattempo corretto, ne saremmo sinceramente contenti. Ma sarebbe bene dirlo pubblicamente, soprattutto di fronte ai propri fedeli.

Un’altra obiezione riguarderebbe il fatto che la FSSPX non sarebbe in scisma, perché mons. Lefebvre non aveva l’intenzione di compiere un atto scismatico. Qui c’è una confusione piuttosto evidente tra il finis operis ed il finis operantis. Lo scisma ‒ lo si è già visto ‒ è essenzialmente «il rifiuto della sottomissione al Sommo Pontefice o della comunione con i membri della Chiesa a lui soggetti» (CIC, can. 751). Non in teoria, ma nella pratica. L’autore classico di riferimento è il Cajetanus, che trova la specificità dello scisma nel voler agire non come una parte, regolata dall’autorità, ma come un corpo autonomo, indipendente. Per distinguere lo scisma dalla disobbedienza, egli spiegava che il rifiuto di obbedire non riguarda l’ordine che viene dato (e che dunque si presume sbagliato), ma il fatto di non riconoscere il Papa come superiore, anche se lo si crede tale (non recognoscens eum ut superiorem, quamvis hoc credat). Lo scisma non è la negazione teorica dell’autorità del Papa, e nemmeno il fatto che non lo si riconosca come Papa, ma il rifiuto di sottomettersi alla sua autorità; in sostanza, si riconosce la sua autorità, ma non su se stessi, preferendo agire in modo indipendente (cf. Dicitonnaire de Théologie Catholique, XIV/1, v. Schisme, col,. 1304).

Ora, al di là delle intenzioni personali di Lefebvre (finis operantis), e che vogliamo credere che attenuino la sua colpevolezza, quello che egli è oggettivamente andato a costituire è una realtà scismatica, perché ha posto in opera degli atti che hanno di per sé (finis operis) l’esito di creare e perpetrare una realtà indipendente dal Romano Pontefice e dai vescovi in comunione con lui. Per questo consacrò quattro vescovi, e non uno solo: perché potessero svolgere il loro ministero in modo autonomo, prescindendo da altri vescovi. Lo stesso vale per l’erezione di seminari, conventi, chiese o la fondazioni di comunità religiose, così come il tribunale di cui sopra. Essere indipendenti, autonomi: è precisamente il rifiuto di agire ut partes. Nominare il papa nel Canone non è sufficiente (lo fanno anche i vetero-cattolici!), né è sufficiente considerarlo tale solo in teoria, svuotando però il contenuto della sua plena potestas riguardo a sé.

Un ultimo punto intende rispondere ad una questione che è stata sollevata: si adempie il precetto domenicale assistendo alle Messe celebrate dai sacerdoti della FSSPX? L’ex Pontificia Commissione Ecclesia Dei, interrogata sulla questione, ha sempre risposto in modo negativo. Dalla prima risposta di mons. Camille Perl, il 27 ottobre 1988, a quella di mons. Guido Pozzo del 28 marzo 2012, la Chiesa ha sempre affermato che l’assistenza alle Messe celebrate dai sacerdoti della FSSPX non soddisfa il precetto. Anche le risposte del 6 novembre 2012 e del 18 giugno 2015, vanno nella stessa linea, ma indirettamente, ossia ricordando che il ministero dei sacerdoti della FSSPX rimane illecito, in quanto non hanno alcuno status canonico nella Chiesa.

A regolare la questione è il can. 1248 §1: «Soddisfa il precetto di partecipare alla Messa chi vi assiste dovunque venga celebrata nel rito cattolico, o nello stesso giorno di festa, o nel vespro del giorno precedente». Come si concilia questo canone, che sembra legare la soddisfazione del precetto semplicemente al fatto che il rito liturgico sia approvato, con le risposte dell’Ecclesia Dei? Tutto sta nel comprendere cosa si intenda per «rito cattolico». Esso indica il rito celebrato nelle Chiese sui iuris, dette anche Riti (qui la lista), ossia quel raggruppamento di fedeli cristiani caratterizzati da omogeneità culturale, sociale, spirituale, governato dalla propria gerarchia e riconosciuto dalla Suprema Autorità della Chiesa. Questo significa che la soddisfazione del precetto è legata al fatto che il rito liturgico venga celebrato appunto in una Chiesa sui iuris, e dunque non al rito liturgico celebrato in chiese che non sono in piena comunione con la Chiesa cattolica o da sacerdoti che, pur se validamente ordinati, non appartengono giuridicamente ad alcuna delle suddette chiese sui iuris. Siccome la FSSPX non ha alcuno status canonico, essa non è parte della Chiesa cattolica e dunque l’assistenza alle Messe celebrate dai sacerdoti della Fraternità non permette di soddisfare il precetto (per approfondire, vedi qui).

Due ulteriori precisazioni sul punto: 1. normalmente la FSSPX esibisce sempre la risposta che mons. Perl diede il 27 settembre 2002 in una corrispondenza privata, affermando che in senso stretto questa persona adempiva il precetto assistendo ad una Messa celebrata da un sacerdote della FSSPX. Si tratta però di un’affermazione contenuta in una corrispondenza privata, priva quindi di autorità, un’affermazione che va nella direzione opposta di quanto mons. Perl aveva affermato ‒ questa volta ufficialmente ‒ anche solo pochi mesi prima (15 aprile 2002). Lo stesso mons. Perl dichiarerà pochi mesi dopo, il 18 gennaio 2003, che si trattava di «una comunicazione privata che affrontava specifiche circostanze della persona che scriveva». In ogni caso, il diritto canonico e tutte le altre risposte dell’Ecclesia Dei si esprimono in modo contrario.

2. Il ricorso al can. 1335 § 2, è del tutto improprio. Vediamo il canone: «Se la censura proibisce la celebrazione dei sacramenti o dei sacramentali o di porre atti di potestà di governo, la proibizione è sospesa ogniqualvolta ciò sia necessario per provvedere a fedeli che si trovano in pericolo di morte; che se la censura latæ sententiæ non sia stata dichiarata, la proibizione è inoltre sospesa tutte le volte che un fedele chieda un sacramento, un sacramentale o un atto di potestà di governo; tale richiesta poi è lecita per una giusta causa qualsiasi». Questo canone è sospensivo di eventuali censure, ma non conferisce la facoltà di celebrare la Messa e conferire i sacramenti a quei sacerdoti che non ce l’hanno. Il canone in questione, in sostanza, non conferisce alcuna missione canonica; semplicemente permette, in determinati casi, ai sacerdoti che già avevano queste facoltà di esercitarle, sospendendo eventuali censure. Inoltre, il canone 1335 non ha nulla a che vedere con la soddisfazione del precetto festivo, che è invece normato, come si è visto, dal can. 1248.



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