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Pippa Knight condannata a morte anche in Appello

Ieri tre giudici della Corte d’Appello hanno autorizzato il distacco del ventilatore che tiene in vita Pippa Knight, bambina di cinque anni gravemente malata. Confermato quindi il giudizio di primo grado. Mamma Paula annuncia l’intenzione di fare ricorso alla Corte Suprema. E la Chiesa inglese interviene chiedendo che si difenda la vita dei più fragili.

Vita e bioetica 20_03_2021

Anche la Corte d’Appello, a quaranta giorni dall’udienza del 9 febbraio, ha deciso che la vita di Pippa Knight può essere interrotta dai medici. Con una sentenza pubblicata ieri, solennità di San Giuseppe, i giudici Jonathan Baker, Brenda Hale ed Elisabeth Laing hanno avallato la decisione presa in primo grado da Nigel Poole, il quale ha stabilito che staccare la ventilazione che tiene in vita la piccola inglese di cinque anni (manca un mese esatto al suo sesto compleanno) sia nel suo «miglior interesse» (vedi qui). Dal punto di vista legale, si tratta dunque di una nuova vittoria della linea dell’Evelina Children’s Hospital di Londra, dove la bambina che soffre di encefalopatia necrotizzante acuta si trova in cura dal gennaio 2019 e dove la madre, Paula Parfitt, cristiana, sta al suo fianco mediamente per 16 ore al giorno.

I giudici di secondo grado hanno respinto praticamente tutti i quattro motivi di impugnazione presentati dal team legale della famiglia, che si oppone al distacco del supporto vitale e chiede che Pippa possa essere trasferita a casa (con l’ausilio di un ventilatore portatile, altre attrezzature e personale sanitario) e lì stare fino alla sua morte naturale. Morte che in quel contesto potrebbe sopraggiungere nel giro di «alcuni mesi», secondo la previsione (riportata nel giudizio di primo grado) del dottor Playfor, uno degli esperti convocati dalla famiglia e convinto che valga la pena intraprendere la strada del trasferimento a casa, così da ridonare a Pippa - anche se forse per breve tempo - i benefici dell’ambiente e degli affetti domestici.

L’analisi per certi versi più combattuta, se paragonata ai restanti tre motivi (respinti senza se e senza ma), ha riguardato il secondo motivo di impugnazione: l’idea di mamma Paula e dei suoi legali, per come è riferita nel giudizio di secondo grado, è che il giudice Poole - nell’usare come argomentazione la supposta assenza di coscienza nella bambina - «ha sbagliato nel ritenere che non ci possa essere alcun beneficio non-medico per Pippa nel prolungare la sua vita di modo che possa essere assistita a casa, circondata dalla sua famiglia […]» (n. 56). Inoltre, se la premessa è l’assenza di coscienza, Poole si sarebbe contraddetto parlando più volte dei «pesi» che Pippa soffrirebbe in caso di mantenimento del supporto vitale (che sia in un reparto ospedaliero di terapia intensiva o a casa).

Ma il giudice Baker, estensore della decisione di ieri sottoscritta dalle colleghe Hale e Laing, ha concluso l’esame di tale questione sostenendo che l’Alta Corte, con la sentenza dell’8 gennaio, abbia contemperato correttamente gli interessi in gioco. «Ancora una volta, non rilevo alcuna differenza sostanziale tra l’approccio del giudice [di primo grado, ndr] in questo caso e quello adottato da MacDonald nel caso Raqeeb» (n. 72), relativo alla piccola Tafida. Secondo i giudici d’Appello, l’approccio giudiziario «è stato sostanzialmente lo stesso in entrambi i casi, sebbene le prove addotte in ciascun caso e i risultati che ne sono derivati siano significativamente differenti». Aggiunge Baker: «Di conseguenza, mentre concederei il permesso di appello per il secondo motivo, un’attenta lettura della sentenza dimostra che il giudice ha tenuto conto dei benefici non-medici derivanti dal vivere in casa. Respingerei quindi questo motivo di appello».

Il paragone con il caso di Tafida - per la cronaca, migliorata nei mesi scorsi grazie alle cure ricevute al Gaslini di Genova - non si limita a questo passaggio ma attraversa tutto il giudizio d’Appello. Per esempio, al punto 61, Baker scrive che «a differenza di Pippa, Tafida conservava una minima consapevolezza, era in condizioni stabili, non soffriva di episodi di desaturazione potenzialmente mortali e aveva ricevuto la ventilazione per un periodo significativamente più breve. Il livello di supporto richiesto da Tafida non era dello stesso grado di complessità […]».

Paula, secondo quanto riporta la Bbc, si è detta «devastata» dalla sentenza di ieri e ha affermato di voler chiedere «il permesso di appellarmi alla Corte Suprema». Nei giorni scorsi, per tre volte, Paula aveva potuto condurre fuori dall’ospedale - per prendere un po’ di aria e sole - la figlia (vedi foto), attaccata a un ventilatore portatile. «Alcune settimane fa non pensavo che queste passeggiate si sarebbero affatto svolte», aveva detto la donna, aggiungendo che a casa «un ventilatore più moderno […] offrirebbe a Pippa ancora più movimento e l’aiuterebbe ancora di più».

Sempre ieri la Spuc (Society for the protection of unborn children), organizzazione pro-vita che sta sostenendo anche economicamente la battaglia giudiziaria della famiglia di Pippa, ha spiegato così quali saranno le prossime mosse: «Ci vorrà del tempo per studiare i dettagli della decisione nei prossimi giorni e poi cercheremo ulteriore consulenza legale per considerare le nostre future opzioni in un caso angosciante che avrà toccato i cuori di tutte le mamme del Paese». Un caso angosciante, per l’appunto, che interessa un Paese dove l’eutanasia è stata imposta in molte situazioni simili, tra cui di recente ai danni del cittadino polacco RS, anche lui ‘reo’ di sopraggiunta disabilità.

Poche ore dopo la pubblicazione del giudizio d’Appello, è intervenuta la Conferenza episcopale dell’Inghilterra e del Galles con un comunicato di monsignor John Sherrington, responsabile delle questioni attinenti alla difesa della vita umana. «La Chiesa cattolica insegna che ogni persona ha un valore e una dignità indipendenti dalla sua condizione. La mancanza di consapevolezza non diminuisce il valore» della stessa persona. «Dobbiamo garantire senza compromessi che vengano assicurate cure adeguate dove c’è ancora vita, nonostante una grave malattia o disabilità», ha aggiunto il vescovo ausiliare di Westminster.

Sherrington ha assicurato preghiere per la situazione. E ha chiarito: «La fine intenzionale della vita di un paziente in condizioni critiche a causa di un giudizio sulla sua qualità [di vita] non è mai nel miglior interesse del paziente. Al cuore dell’umanità deve esserci la chiamata a mostrare amore e solidarietà ai più vulnerabili nella società, e a difendere la vita dei nostri fratelli e sorelle più fragili che non sono in grado di farlo da soli».