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MEDIO ORIENTE

L'offensiva turca in Siria infiamma tutta la regione

La penetrazione turca nella regione curda della Siria sta riaccendendo i conflitti che covavano sotto la cenere. Le truppe di terra sono entrate per almeno 7 chilometri in territorio siriano mentre i raid aerei hanno colpito obiettivi fino a 30 km all'interno del Paese. Russia e Iran contrari all'offensiva, il governo di Damasco deve ancora decidere l'obiettivo da perseguire.

Esteri 11_10_2019
Bombardamenti turchi contro i curdi in Siria

Il presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, ha dato avvio alla nuova campagna in territorio siriano. “Le Forze armate turche” – si legge nel breve comunicato – “insieme all'Esercito siriano libero hanno lanciato l'operazione Primavera di pace, con l'obiettivo di prevenire la creazione di un corridoio del terrore a sud del confine turco e portare pace nell'area”.

Una mossa che non è certo giunta come un fulmine a ciel sereno. Da tempo, infatti, Ankara minacciava l'invasione del territorio nordorientale siriano allo scopo di creare una zona cuscinetto – dell'estensione di circa 30-40 chilometri –. Con una triplice finalità: “liberare il territorio dal terrorismo”, impedire che la nascita di uno Stato curdo oltre il confine meridionale della Turchia galvanizzasse i curdi presenti nel Paese; e ricollocare i profughi siriani rifugiatisi in Turchia.

Finora, tuttavia, le ambizioni turche erano state frenate dalla presenza nell'area delle truppe statunitensi, per le quali i curdi siriani hanno rappresentato un alleato chiave nella lotta contro lo Stato Islamico. Negli ultimi mesi, inoltre, il progetto condiviso per una “safe zone” sembrava essersi finalmente concretizzato: Ankara e Washington avevano raggiunto un accordo per la creazione del c.d. “corridoio di pace”, eseguendo anche le prime fasi del piano, quali il ritiro delle Syrian Democratic Forces (Sdf) dalle loro roccaforti nel nord-est della Siria e alcuni pattugliamenti congiunti turco-statunitensi.

Segnali positivi che, tuttavia, non sono risultati sufficienti, almeno nella prospettiva turca. Più volte, infatti, Ankara ha accusato gli Stati Uniti di non “aver fatto abbastanza” per la realizzazione della zona cuscinetto, arrivando anche a lanciare un ultimatum a Washington - scaduto alla fine di settembre - con il quale Erdogan minacciava un intervento unilaterale della Turchia nel nord della Siria.

Dalle parole ai fatti. Compresa la serietà della minaccia turca, domenica scorsa (6 ottobre), il presidente americano, Donald Trump, ha annunciato la decisione di disimpegnarsi dalla Siria, ritirando le truppe statunitensi e dando de facto il “via libera” alla campagna di Ankara.

Pochi giorni dopo, il 9 ottobre scorso, le truppe turche – con l'appoggio dall'Esercito siriano libero, i ribelli sostenuti da Ankara negli anni della guerra civile siriana – hanno lanciato la campagna militare contro i curdi siriani. Ventiquattro ore più tardi, le truppe di terra turche sono penetrate per almeno 7 chilometri in territorio siriano, raggiungendo la città di Tal Abyad. Alcuni raid aerei avrebbero inoltre centrato obiettivi situati fino a 30 chilometri all'interno del Paese.

Niente pace, dunque, per la Siria, la cui mappa del conflitto appare nuovamente stravolta. Abbandonati dagli Stati Uniti, i curdi potrebbero infatti rivolgersi al governo siriano - dal quale hanno cercato di rendersi autonomi negli ultimi anni - o alla Russia, affinché riempiano il vuoto lasciato dalle truppe americane. Prospettiva caldeggiata anche da Mosca che, pur capendo le esigenze di sicurezza di Ankara, sta spingendo Damasco a negoziare con i curdi per fare fronte comune e salvaguardare l'integrità territoriale della Siria. Contrario all'offensiva turca, anche l'Iran - altro importante alleato di Bashar Al-Assad -, che ha intimato ad Ankara di ritirare le proprie truppe dal territorio siriano, dando il via ad alcune esercitazioni militari non preannunciate al confine con la Turchia, verosimilmente in funzione deterrente.

Per nulla scontata, invece, la risposta di Damasco. Le forze pro-Assad si starebbero concentrando nei pressi di Manbij e Deir Ez-Zour, ma non è ancora chiaro quale sia il loro obiettivo: se sostenere i curdi contro le ingerenze esterne o approfittare dell'offensiva per riprendere possesso del territorio. Dal marzo 2016, infatti, il territorio corrispondente alle aree di Afrin, Al-Jazira, Kobane, Tal Abyad e Shahba farebbe parte di uno “Stato curdo”, mai riconosciuto ufficialmente da Damasco.

Le conseguenze dell'offensiva turca potrebbero anche travalicare i confini siriani, riguardando direttamente l'Occidente. Nonostante la sconfitta territoriale dello Stato Islamico in Siria e in Iraq, l'ideologia dell'Isis è ancora molto viva tra i suoi seguaci, in particolare negli ex territori del califfato, dove si nascondono numerose cellule dormienti.

Costrette a ricollocarsi per affrontare la minaccia turca, le forze di sicurezza curde potrebbero abbandonare il territorio nord-orientale della Siria – in cui si concentra la presenza dei jihadisti -, lasciando il fronte scoperto e vulnerabile. Ad aggravare la situazione anche lo “stand-by” in cui è stata posta la missione a guida Usa impegnata nella lotta allo Stato Islamico in Siria, proprio in concomitanza con l'avvio dell'operazione “Primavera di pace” (9 ottobre).

La diminuzione delle forze di sicurezza a guardia delle prigioni curde, nelle quali sono detenuti gli jihadisti, rischia di favorire l'evasione dei membri dell'Isis, tra cui  numerosi foreign fighters. Proprio in concomitanza con l'avvio dell'offensiva turca, nel campo di Al-Hol, i detenuti hanno attaccato le guardie e dato fuoco alle tende in cui risiedono. Senza contare i “danni collaterali” dei raid aerei turchi. Il giorno successivo all'avvio della campagna militare (10 ottobre), è stata colpita una prigione gestita dai curdi, nella quale sarebbero stati detenuti alcuni tra i più pericolosi combattenti, arruolatisi nelle file dell’Isis e provenienti da circa 60 diversi Paesi.