L’Italia peggio della Francia. Qui Vincent sarebbe già morto
Se Vincent Lambert fosse stato un cittadino italiano quale sarebbe stata la sua sorte? A quest’ora sarebbe già all’altro mondo perché con la legge 219 sul “biotestamento”, la moglie Rachel, in assenza di Dat e in quanto rappresentante legale, avrebbe avuto potere di vita e di morte su di lui, senza nemmeno dover disturbare i giudici.
Chi ha seguito il caso Lambert e ne ha compreso esattamente i profili non può fare a meno di inorridire di fronte a tanta determinazione nel dare la morte a un paziente disabile. Per mano di giudici e medici la vita del quarantaduenne Vincent è ancora appesa a un filo, anzi appesa a una cannula che lo alimenta e lo idrata.
Qualcuno, a leggere cosa sta accadendo oltralpe, potrebbe tirare un amaro sospiro di sollievo: “Per fortuna che tali situazioni qui da noi in Italia non potrebbero mai capitare”. A parte il fatto che già sono capitate - vedi i casi Eluana Englaro e Piergiorgio Welby - c’è da ricordare che dal 2018 è vigente sul suolo italico una legge, la n° 219, che legittima l’eutanasia, sia quella attiva che quella omissiva. Il primo caso di applicazione della stessa è avvenuto qualche giorno dopo la sua entrata in vigore: la signora Patrizia Cocco di 49 anni, malata di Sla, chiese nel febbraio del 2018 che le venisse staccato il respiratore che la teneva in vita. E così morì. Nelle corsie di neonatologia si è poi diffusa - non si sa quanto ampiamente - una pratica volta a non rianimare i neonati fortemente pretermine e che presentano patologie molto invalidanti. Dunque, il sospiro di sollievo non ha motivo di esserci.
E infatti facciamoci una domanda: se Vincent fosse stato cittadino italiano quale sarebbe stata la sua sorte? Sarebbe già morto da un pezzo. Infatti, secondo la legge 219, è possibile nominare un rappresentante legale a tutela di persona incapace, rappresentante legale il quale in assenza di Dat - ossia di dichiarazioni scritte del paziente - ha mano libera nel decidere le sorti dell’assistito. Sta a lui prestare o negare o revocare il consenso in merito a tutte le cure e le terapie, anche quelle salvavita, comprese alimentazione e idratazione assistite. Nel marzo del 2016 la moglie di Vincent, Rachel Lambert, viene designata come rappresentante legale del marito. Dunque, se tutta la vicenda si fosse svolta in Italia, spettava alla moglie, in quanto rappresentante legale del marito, decidere se tenerlo in vita o ucciderlo per inedia. E la signora Rachel, sin dal 2013, è stata sempre a favore della morte del marito. Quindi, a differenza di quello che è successo in Francia, Vincent sarebbe già morto qui da noi senza nemmeno il bisogno di disturbare i giudici nazionali, quelli europei e il Comitato Onu per i diritti delle persone disabili.
Questo per dire che noi stiamo peggio dei francesi. Ma dato che al peggio non c’è mai fine, la vigente disciplina sul fine vita subirà un ulteriore deterioramento o da parte del Parlamento o della Corte costituzionale, prevedendo la possibilità di praticare anche il suicidio assistito, pratica per ora vietata dall’attuale legge. Infatti, come abbiamo già avuto modo di raccontare da queste colonne (vedi qui e qui), la Consulta, dietro richiesta del tribunale di Milano che ha sospeso il giudizio per aiuto al suicidio in capo al leader radicale Marco Cappato, aveva chiesto al Parlamento, nell’ottobre dell’anno scorso, di legittimare almeno parzialmente l’aiuto al suicidio - che ad oggi è ancora considerato reato - ovviamente nei modi e limiti che il Parlamento stesso giudicherà più opportuni.
Lo scorso 21 marzo il presidente della Corte, Giorgio Lattanzi, nel corso della relazione annuale, ricordava al Parlamento che erano passati già alcuni mesi dalla richiesta della Consulta di intervenire sul reato di aiuto al suicidio, ma nulla era successo. Sebbene siano stati strigliati a dovere, da quel 21 marzo i parlamentari ancora una volta sono rimasti inerti e, ad oggi, la richiesta dei giudici inascoltata. Il termine ultimo per intervenire è settembre di quest’anno. Ora, il governo non ha nessuna intenzione di metter mano al reato di aiuto al suicidio, sia perché i temi di fine vita non rientrano, almeno formalmente, nel patto di governo, sia perché tali tematiche sono fortemente divisive, sono solo gatte da pelare che sono ancor più difficili da pelare sotto elezioni. Dunque, pare proprio che la strategia sia quella di far melina e passare la patata bollente di nuovo nelle mani della Consulta, la quale a settembre o indicherà un nuovo ultimatum al Parlamento (e chissà quale governo avremo allora) oppure, più probabilmente, sarà lei stessa a togliere le castagne dal fuoco e a metterci i malati terminali, quelli fortemente disabili e i depressi gravi.
Tutto questo per dire che, da una parte, quello che sta avvenendo in Francia - frutto di battaglie legali nei tribunali - qui da noi sarebbe permesso dalla legge, e che, su altro fronte, noi rispetto ai francesi siamo ben più indietro nella difesa della vita dei pazienti o, rovesciando la prospettiva, molto più avanti nella difesa dell’eutanasia.