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Vittime dei comunisti

L’esempio luminoso dei 66 martiri francescani dell’Erzegovina

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La Provincia francescana dell’Erzegovina pianse 66 confratelli uccisi durante la Seconda Guerra Mondiale per mano dei partigiani comunisti. Il regime cercò di infangarne la memoria. Ma in realtà i frati furono testimoni di amore per il prossimo e morirono perdonando i loro carnefici.

Ecclesia 14_02_2025

Nel primo pomeriggio del 14 febbraio 1945 un gruppo di ufficiali dell’esercito titino si presentarono al convento francescano di Mostar e interrogarono il provinciale fra Leo Petrović. Poi, raccolsero tutti i francescani nel parlatorio, ne fecero prigionieri 7 – tra cui il provinciale – e li portarono fuori dal convento. Chi per strada vide questa insolita processione di frati, incatenati sotto la minaccia di armi da fuoco, racconta che i frati stessi, coscienti del loro destino, pregarono insieme ad alta voce fino al momento in cui, giunti in località Čekrk, diedero l’un l’altro l’assoluzione generale prima di essere uccisi a uno a uno con un colpo di pistola alla nuca.

A questi 7 francescani vanno aggiunti altri 59 loro confratelli della Provincia dell’Erzegovina uccisi durante la Seconda Guerra Mondiale. Per tutti i frati assassinati, le testimonianze sono unanimi: essi non fuggirono, non si ribellarono, non disperarono, bensì trascorsero le ultime ore della loro vita terrena nella preghiera, confessando gli uni gli altri o il popolo con cui si trovavano. Quando mancava il tempo per confessare tutti, impartivano a tutti l’assoluzione generale, incoraggiando a vivere con fede questo momento decisivo della loro vita. Fu un esempio luminoso di offerta della propria vita a Dio, un esempio di martirio vissuto con amore per il prossimo e perdonando i propri uccisori. Un’eroicità che del resto si era già manifestata negli anni precedenti, quando i frati avevano continuato a portare i sacramenti ai malati e ai moribondi nonostante la minaccia delle frequenti incursioni partigiane.

Fra Krešimir Pandžić, ex provinciale, qualche istante prima di essere giustiziato a Mostarski Gradac, benedisse chi stava per uccidere lui e i suoi confratelli, e pregò: «Signore, perdona loro perché non sanno quello che fanno».

Fra Paško Martinac guidò il corteo di prigionieri dalla prigione di Ljubuški fino al luogo dove erano destinati a essere fucilati pregando ad alta voce le Litanie del Santissimo Nome di Gesù. Prima di morire intonò il Te Deum. Su suo invito, prima di essere fucilati, tutti i condannati perdonarono i loro assassini.

Fra Nevinko Mandić, 37 anni, fu incaricato di sostituire provvisoriamente il parroco di Izbično, fra Metod Puljić, inviato in missione a Zagabria. All'invito di alcuni fedeli di non recarsi in quel villaggio poiché era pericoloso, fra Nevinko rispose: «Possono uccidere il corpo, ma non possono uccidere l'anima». L’11 febbraio 1945, domenica, i partigiani giunsero nel villaggio, entrarono in chiesa, interruppero la Santa Messa, portarono via fra Nevinko insieme ai suoi confratelli fra Marko Dragićević (sacerdote) e fra Bono Andačić (fratello laico). Dopo averli costretti a trasportare armi per loro conto, il giorno seguente li uccisero in una località sconosciuta.

I frati, nella quasi totalità, rimasero al loro posto sebbene sapessero che li attendeva una morte certa. Il giorno prima della conquista del convento di Široki Brijeg, il ventunenne seminarista fra Viktor Kosir, in visita presso la famiglia in un villaggio vicino, fu invitato dai suoi parenti a vestire abiti civili e nascondersi. Egli rispose: «No! Io vado. Qualsiasi cosa accada ai miei fratelli, accada anche a me!».

I frati rifugiatisi presso la centrale idroelettrica di Široki Brijeg, dopo la caduta del convento, ricevettero la visita di nascosto di due sottufficiali partigiani, probabilmente credenti, i quali li invitarono a fuggire poiché altrimenti sarebbero stati uccisi. Il direttore del ginnasio, fra Radoslav Vukšić, rifiutò l'offerta di fuga, dicendo: «Non abbiamo fatto del male a nessuno».

Quasi tutti i frati francescani furono uccisi con un colpo di pistola alla nuca: tuttavia, non mancarono i casi di torture e di morte tra i tormenti. Particolarmente straziante fu la fine di fra Julijan Kožul, fra Zdenko Zubac e fra Melhior Puljić. Furono portati da Ljubuški a Zagvozd, interrogati e torturati tutta la notte, poi denudati e gettati nella rupe che si trovava sotto la casa dove si trovavano, con un salto nel vuoto di sei-sette metri. Giacché i frati erano ancora vivi e gemevano a causa delle ferite riportate nel salto, i partigiani gettarono su di loro sassi e pezzi di legno, poi li mitragliarono e infine lanciarono una bomba a mano per assicurarsi che nessuno dei tre rimanesse vivo.

Già nel 1942 don Ilija Tomas, parroco di Klepci, appartenente al clero secolare diocesano, era stato trovato morto in campagna: sul suo corpo c’erano 21 ferite da taglio, fatte con un coltello e un'ascia. Aveva una croce incisa sulla fronte, gli occhi cavati, la bocca tagliata da entrambi i lati e una ferita da taglio sul lato del cuore.

Le stragi dei frati di Široki Brijeg e dell’Erzegovina ebbero da subito una grandissima eco nell’opinione pubblica internazionale, tanto da costringere il regime comunista a organizzare una macchina propagandista senza precedenti che dipingeva i frati francescani dell’Erzegovina come combattenti che avevano sparato sui partigiani, come fanatici aderenti all’ideologia ustascia e massacratori di serbi ed ebrei, che essi fingevano di convertire al cattolicesimo per poi consegnarli ai boia ustascia.

In realtà, nessuno dei frati partecipò ai combattimenti, e a seguito di precise istruzioni provenienti dalla Curia generale francescana e trasmesse da fra Krešimir Pandžić, provinciale dal 1940 al 1943, già all'inizio della guerra i francescani si rifiutarono di incamerare i beni sequestrati a ebrei e serbi (deceduti o trasferiti nei campi di concentramento) che erano stati loro offerti dal regime ustascia; nelle circolari destinate ai suoi frati, il provinciale rammentò che essi erano sacerdoti e, quindi, non dovevano fare politica né appoggiare l'una o l'altra fazione in lotta, bensì esclusivamente diffondere l'amore.

Sempre fra Pandžić istruì espressamente i frati attivi nelle parrocchie di rifiutare la conversione forzata di massa di serbi ortodossi – voluta dal regime ustascia – alla Chiesa cattolica: potevano essere catechizzati solo quei serbi animati da sinceri motivi religiosi, non dalla paura. A conferma di ciò vi è la testimonianza di fra Tugomir Soldo, il quale ricorda che nella parrocchia di Čapljina, quando egli era vicario parrocchiale insieme al parroco fra Andrija Jelčić, solo due ortodossi passarono veramente al cattolicesimo, mentre a tutti gli ortodossi che chiedevano di diventare cattolici per salvarsi la vita consegnava solo un certificato fittizio di conversione, rammentando loro che esso serviva esclusivamente a salvare la loro vita, e che essi erano e rimanevano ortodossi.

Fra Leo Petrović – in qualità di vicario generale della Diocesi di Mostar-Duvno dal 1934 al 1942, e poi come provinciale francescano fino al giorno della sua uccisione – fu particolarmente attivo per evitare conflitti e salvare vite. Già nel 1941 egli guidò le trattative per garantire il ritiro da Mostar dell’esercito jugoslavo senza spargimenti di sangue, intervenne spesso presso le autorità civili e militari croate per salvare ebrei e serbi e, in alcuni casi, anche comunisti: a tale scopo s’incontrò perfino con il Poglavnik Ante Pavelić, cozzando tuttavia contro il muro di odio che albergava nei cuori degli ustascia. Nel convento di Mostar, fra Leo organizzò anche una mensa dei poveri aperta a tutti, indipendentemente dall’etnia e dalla religione. I partigiani sapevano di questa sua attività, tanto che alcuni suoi beneficiati cercarono perfino di garantirgli un salvacondotto, ma fra Leo rifiutò. Alla fine, prevalse il fatto che egli era sacerdote cattolico e francescano, perciò fu ucciso senza pietà.

Le straordinarie grazie delle apparizioni della Madonna a Medjugorje furono precedute dal sacrificio dei frati martiri dell’Erzegovina e, in questa strage, anche la parrocchia di Medjugorje pagò un prezzo altissimo. Tra i 66 frati uccisi, ben sei erano nativi di Medjugorje. Tra i martiri vi sono anche due ex parroci di Medjugorje, fra Bernardin Smoljan, che nel 1933 fece costruire la grande croce sul Križevac, e il suo successore fra Paškal Martinac. C'è poi fra Križan Galić, ucciso da una bomba a mano gettata da un partigiano nel 1944 nell'ufficio parrocchiale di Medjugorje; i suoi resti mortali riposano nel cimitero di Kovačica, a poca distanza dalla chiesa parrocchiale di San Giacomo, accanto a quelli di fra Slavko Barbarić. Sempre di Medjugorje possiamo considerare martire anche fra Honorije Čilić (non nel computo dei 66), morto nel 1950 per le conseguenze di quasi tre anni di carcere duro dal quale era stato liberato nel 1949.

È auspicabile che Široki Brijeg, dove sono sepolti 24 di questi 66 martiri francescani, torni a essere meta di pellegrinaggio dei gruppi di pellegrini che si recano a Medjugorje. L’esempio dei martiri può rafforzarci nella fede in questi tempi difficili e la loro intercessione può impetrarci dal Signore la forza di offrire con amore le nostre sofferenze quotidiane ed essere eucaristie viventi per la salvezza delle anime.



80° anniversario

Široki Brijeg, il martirio dei francescani che plasmarono l’Erzegovina

07_02_2025 Guido Villa

Il 7 febbraio 1945, dodici francescani del convento di Široki Brijeg furono trucidati dai partigiani titini. Alla fine della Seconda Guerra Mondiale, nella sola Provincia dell’Erzegovina, si contavano 66 francescani uccisi. Eliminandoli, i comunisti volevano anche distruggere la cultura del popolo, plasmata proprio a Široki Brijeg.