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svolta

Urbanistica milanese, la Cassazione "boccia" la Procura

Le recenti decisioni della Suprema Corte incrinano il teorema alla base dell'impianto accusatorio che descriveva un sistema sedimentato di pressioni sulle istituzioni da parte della finanza immobiliare. È un forte richiamo al rigore: un conto è indagare, altro è accendere micce politico-giudiziarie.

Attualità 15_11_2025
Photo Gabriele Puglisi/LaPresse

La più recente svolta dell’inchiesta milanese sull’urbanistica riversa una luce ben diversa su quel sistema definito dai pubblici ministeri come un meccanismo corruttivo “tentacolare”. La Cassazione, con la sua decisione del 13 novembre 2025, ha infatti bocciato il ricorso della Procura di Milano e dichiarato “inammissibile” la richiesta di custodia cautelare nei confronti di Manfredi Catella, Ceo di Coima SGR, così confermando il verdetto del Riesame che aveva già revocato i domiciliari per mancanza di gravi indizi di corruzione.

Allo stesso modo la Suprema Corte ha respinto le misure cautelari nei confronti di Alessandro Scandurra, ex membro della Commissione paesaggio, e di Andrea Bezziccheri, patron di Bluestone, l’unico coinvolto finito in carcere inizialmente. Ma non è tutto: la Cassazione ha annullato anche le misure interdittive (quindi non misure detentive ma restrittive) a carico di Giancarlo Tancredi, ex assessore alla Rigenerazione urbana del Comune di Milano, di Giuseppe Marinoni, ex presidente della Commissione paesaggio, e di Federico Pella. Questa decisione smonta, almeno in parte, l’impianto accusatorio elaborato dalla Procura milanese, che aveva descritto un sistema in cui pubblici ufficiali, imprenditori e professionisti avrebbero intrecciato relazioni corruttive per favorire progetti immobiliari milionari.

Ricordiamo i fatti: l’inchiesta sull’urbanistica di Milano esplose con la richiesta di sei arresti operata ai primi di agosto 2025. I pm contestarono a Tancredi l’induzione indebita e il falso, a Catella la corruzione, e coinvolsero anche Marinoni, Scandurra, Pella e Bezziccheri. La Procura, nella nota ufficiale, parlava di “incontrollata espansione edilizia” e di un sistema sedimentato in cui la finanza immobiliare esercitava pressioni sulle istituzioni per ottenere permessi e favori, addirittura prospettando “iniziative giudiziarie” se gli investimenti non fossero andati nella direzione voluta.
In quel momento il gip aveva ritenuto fondati molti capi d’imputazione, descrivendo un quadro in cui la funzione pubblica sembrava essere mercificata: fatture, parcelle, incarichi, masterplan “privati” sovrapposti a iter istituzionali, tutto intrecciato con il potere decisionale della Commissione paesaggio.

Tuttavia, con la decisione della Cassazione, gran parte di quell’architettura accusatoria appare incrinata. Secondo il pg della Suprema Corte, le chat, le fatture, i contatti ravvicinati tra Catella e Scandurra non basterebbero a dimostrare un accordo corruttivo: i pagamenti contestati, si sostiene, possono essere ricondotti a prestazioni professionali reali, regolarmente contabilizzate. L’azione del Riesame, secondo Cassazione e pg, non è affatto una valutazione “atomistica”: al contrario, i giudici cautelari avrebbero compiuto un esame razionale e organico degli elementi, valutando anche la natura “impropria” di alcuni rapporti ma concludendo che non emergono indizi gravi tali da giustificare misure restrittive. In sostanza, l’orologio accusatorio – per citare le parole usate dalla Procura – viene smontato pezzo per pezzo.

Questo esito ha implicazioni non solo giuridiche ma anche morali e politiche. Si assiste infatti sempre più spesso a un uso massiccio della narrazione giudiziaria per raccontare teoremi – talvolta seducenti, con potentissimo appeal mediatico – che criminalizzano il profitto in sé e costantemente. Nell’inchiesta milanese, come in tante altre, emerge un tacito presupposto: il denaro, gli investimenti, le imprese immobiliari sarebbero di per sé sospetti, e ogni rapporto tra pubblico e privato finisce per essere letto come potenzialmente corruttivo. Questo approccio rischia di invadere campi propri della politica e della pianificazione – che dovrebbero restare saldamente nell’ambito democratico – affidando alla magistratura un ruolo che non è solo quello di accertare reati ma anche, implicitamente, di regolare lo sviluppo urbano e l’economia immobiliare.

Se la Procura disegna un sistema in cui il profitto è sempre un male assoluto, finisce per proporsi come arbitro della “giustizia sociale” attraverso il diritto penale. Inoltre, se i pm lanciano accuse di corruzione così gravi, i giornali balzano su titoli sensazionalistici, la piazza (virtuale e reale) si infiamma, e la reputazione delle persone coinvolte è devastata ancora prima che si arrivi a un giudizio definitivo. I processi mediatici fanno audience, ma non sono processi giusti: sono narrazioni. Spesso non lasciano spazio alla complessità, semplificano ogni relazione come se fosse un crimine già consumato e privano gli imputati del beneficio della presunzione d’innocenza, almeno nella percezione pubblica. È un fenomeno che distrugge vite anche se, come in questo caso, le misure cautelari più pesanti vengono poi revocate o annullate.

Questa inchiesta milanese rappresenta un simbolo: il giustizialismo mediatico non solo può danneggiare le persone, ma minaccia la stessa possibilità di un confronto politico-serio sul modello urbanistico della città. Se ogni operazione immobiliare diventa automaticamente terreno di sospetto, la politica rischia di ritirarsi o di essere surrogata da magistrati e inquirenti che interpretano il diritto in funzione di una narrazione più ampia, quella del “sistema speculativo”.

In altre parole, la Cassazione lancia un segnale forte: ci vuole rigore e misura, non solo nel perseguire gli abusi, ma anche nel costruire schemi investigativi che non si basino solo su relazioni private, chat e contatti indiscriminati. Perché quando lo Stato – tramite la magistratura – entra pesantemente nella politica urbanistica con presunzioni fortissime e accuse spettacolari, si avvia una dinamica pericolosa: trasformare ogni imprenditore, ogni investitore, ogni politico che dialoga con il privato in un possibile colpevole. E questo tipo di giustizialismo, amplificato dai media, non tutela né la città (in questo caso Milano) né la democrazia.

Con la revoca delle misure cautelari, almeno su questa parte dell’inchiesta, la Cassazione sembra richiamare a un equilibrio che il clamore iniziale aveva quasi fatto dimenticare: indagare è doveroso, ma trasformare ogni progetto in una miccia politico-giudiziaria è un rischio che va evitato, perché le conseguenze non ricadono solo su chi è indagato, ma sull’intera idea di servizio pubblico, sviluppo urbano e partecipazione democratica.



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