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Le interviste del Papa: slogan fissi, confusione garantita

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Indietrismo, clericalismo e le immancabili ambiguità sull'inclusione di omo e transessuali: è il consueto copione andato in scena anche nel colloquio di Francesco con i gesuiti portoghesi.

Editoriali 29_08_2023 English Español

Durante il viaggio a Lisbona per la Giornata mondiale della gioventù Francesco ha incontrato, come sua abitudine, anche i confratelli gesuiti, rispondendo alle loro domande. Il testo di questo colloquio viene ora pubblicato da La Civiltà Cattolica.

Si spera sempre che da questi incontri possa nascere qualche importante e chiaro insegnamento, nonostante il linguaggio adoperato sia piuttosto informale come in un dialogo tra amici. Però spesso così non è per due motivi principali. Il primo è che Francesco prosegue con la propria linea di pensiero e non si lascia mettere in discussione minimamente dai problemi sollevati. Non che i confratelli gesuiti, essendo gesuiti, facciano domande imbarazzanti, intendiamoci, ma comunque sollevano problemi che subito vengono affrontati secondo i soliti schemi di pensiero e con l’abuso delle stesse parole: indietrismo, clericalismo e così via.

Il secondo motivo è che Francesco dà giudizi generali su situazioni molto complesse. Si capisce che in un breve colloquio non si possano scrivere romanzi, ma proprio per questo una certa cautela andrebbe adoperata. Per esempio, il Papa esprime qui un giudizio molto duro e assolutamente schematico sul clero e sui cattolici americani, accusandoli sommariamente di indietrismo ideologico: «c’è un’attitudine reazionaria molto forte, organizzata, che struttura un’appartenenza anche affettiva. A queste persone voglio ricordare che l’indietrismo è inutile».

L’impressione è che ad ogni intervista con i confratelli gesuiti, ma si potrebbe anche dire in ogni intervista tout court, le risposte di Francesco siano standard, che appartengano ad un repertorio sia concettuale che linguistico fisso e che non conoscano vera evoluzione. Anche questa volta, come già accaduto in passato, Francesco cita Vicenzo di Lerino a proposito dello sviluppo del dogma, ma lo cita a metà, riportando le parole che indicano il progresso ma mai quelle che indicano la perfetta continuità, ossia quel «da tutti, sempre e in ogni luogo». Nonostante molti esperti glielo abbiano fatto notare, come per esempio don Nicola Bux, egli continua imperterrito.

Questa approssimazione che anima giudizi affrettati e ingiusti, si è manifestata in questo dialogo con i confratelli gesuiti del Portogallo anche su un argomento riguardante la Dottrina sociale della Chiesa. Rispondendo ad una domanda sull’inclusione nella Chiesa di omosessuali e transessuali (poteva mai mancare?...), Francesco fa questa sottolineatura: «Ma quello che a me non piace affatto, in generale, è che si guardi al cosiddetto "peccato della carne" con la lente d’ingrandimento, così come si è fatto per tanto tempo a proposito del sesto comandamento. Se sfruttavi gli operai, se mentivi o imbrogliavi, non contava, e invece erano rilevanti i peccati sotto la cintola».

Questo intervento è manchevole da molti punti di vista. Prima di tutto esprime un giudizio in tre parole e frutto di una impressione personale su una questione assai importante e complessa. Giudica intere epoche storiche, moltissimi sacerdoti nei confessionali, educatori e genitori tramite un giudizio tagliente e senza appello. In secondo luogo, è senz’altro un giudizio sbagliato perché non tiene conto della grande attenzione che la Dottrina sociale della Chiesa, la morale cattolica e la manualistica per confessori avevano assegnato ai cosiddetti “peccati sociali”.

Il Catechismo elencava tra le azioni che gridano vendetta davanti a Dio defraudare i lavoratori della giusta mercede. Nella Rerum novarum Leone XIII poneva al centro dell’azione della Chiesa coloro che erano «soli e indifesi in balia della cupidigia dei padroni e di una sfrenata concorrenza». Questo giudizio di Francesco non rende ragione di «quel grande movimento per la difesa della persona umana», di cui parlava la Centesimus annus (n. 3) di Giovanni Paolo II, che si è dato da fare per una società più giusta.

Senz’altro in passato l’attenzione ai peccati “della carne” era molto più accesa di oggi, quando – così rivelano molti confessori – nessuno si confessa più per atti contro il sesto comandamento. Ma certamente non mancavano esami di coscienza per gli atti di ingiustizia sociale e di sfruttamento, non mancavano atti di riparazione per quei peccati, non mancavano interventi pubblici di carità come attestano i santi sociali e le loro opere caritative. La Rerum novarum, infatti, finiva con un inno alla carità. E quante generazioni di sacerdoti e di laici ispirò e guidò quell’enciclica?

Del resto, se oggi nessuno si confessa più per il sesto, forse che tutti si confessano per il settimo? Questo strano intervento di Francesco sembra dimenticare che in fondo la virtù è una sola e l’attenzione per la dignità del proprio e dell’altrui corpo aiuta poi ad essere anche rispettosi del lavoratore o del povero. Il sesto comandamento non è qualcosa di privato, ma ha ampia ripercussione sulla vita sociale e politica perché dalla coltivazione delle passioni sfrenate nascono tutti i guai della società. Nel colloquio di Lisbona Francesco ha parlato molto dell’inclusione degli omosessuali e dei transessuali. Non vorremmo che gli fosse sfuggito questo nesso tra il rispetto del corpo e la giustizia, tra il sesto e il settimo comandamento.



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