L’attualità di Dante nel confronto Inferno-Paradiso
L’epoca contemporanea è l’esito di una concezione della libertà personale svincolata dalla verità. La nostra epoca, amante dell’idolatria e scevra di maestri, ama gli idoli dell’Inferno dantesco. Mentre il viaggio nel Paradiso, con la sua altezza e bellezza di linguaggio, richiede un impegno e una fatica che solo la coscienza del pregio e del valore della terza cantica permette di affrontare.
La Commedia dantesca trova molti apprezzamenti in un’epoca come quella contemporanea, che, anche se inconsapevolmente, cerca di ancorarsi ad uno scoglio per evitare il naufragio definitivo nella tempesta della crisi culturale, antropologica, valoriale. E la Commedia offre all’uomo di oggi la compagnia di un viaggio orientato verso una meta.
Scrive il filosofo Zygmunt Bauman:
Non è la pressione soverchia di un ideale irraggiungibile che tormenta gli uomini e le donne del nostro tempo, quanto l’assenza di ideali: la penuria […] di punti di riferimento fissi e stabili, di una destinazione prevedibile per l’itinerario della vita.
L’epoca contemporanea è l’esito di una concezione della libertà personale svincolata dalla verità, come sorgente del bene e del male, con la conseguenza di una totale svalutazione della libertà stessa, di una separazione tra ordine etico e salvezza. L’eccesso di libertà distrugge la libertà stessa e si rovescia nel suo contrario.
La nostra è anche l’epoca dell’imperversare del relativismo, che è alla base della diffusione delle ideologie, perché ha spazzato via ogni barlume di certezza del passato e si è tradotto nel tempo, a sua volta, in una vera e propria ideologia. Ma il relativismo non è se non la forma più diffusa del nichilismo, perché considera tutte le idee di uguale valore, per il fatto che nessuna esprime verità, ma ciascuna di esse corrisponde a qualcosa che non vale nulla, ossia a qualcosa che vale «zero». A questo si giunge, se si nega la verità e la sua funzione determinante nella vita e nelle ricerche dell’uomo.
Con atteggiamento prometeico l’uomo contemporaneo si è contrapposto al Cielo, di cui ha pensato ormai di poter fare a meno. Dopo aver abbandonato la fede nell’aldilà, l’uomo ha perso anche la fiducia nel progresso nell’aldiquà e si trova, quindi, in una situazione drammatica, in quanto non sa più in che cosa credere.
Per questa ragione l’uomo è colpito dai mali dell’anima e dalle depressioni spirituali. Per la stessa ragione cerca l’evasione dalla realtà, in mondi illusori, fittizi, virtuali. Il mondo e la realtà, una volta deprivati del senso e del mistero, appaiono assurdi e piccoli, inadeguati all’uomo e alla sua capacità di infinito. Le vite degli uomini si sono spesso ridotte a «consorzi di egoismi», l’uomo come individuo in senso estremo diventa un «solitario», che sa vivere solo per sé e non per gli altri.
Per queste ragioni l’uomo contemporaneo si identifica maggiormente nell’Inferno dantesco con le sue intense passioni, i suoi personaggi immortali e dannati, le sue grandi tragedie. La nostra epoca, amante dell’idolatria e scevra di maestri, ama gli idoli dell’Inferno, si sente distante dallo spirito di appartenenza e di comunità del Purgatorio e del Paradiso danteschi.
Indubbiamente, la distanza tra la concezione della vita sottesa al poema dantesco e quella della cultura contemporanea è il primo grande ostacolo alla comprensione e al godimento del Paradiso dantesco. L’Inferno è, infatti, il luogo dell’individualismo, mentre il Purgatorio è il regno in cui l’uomo si scopre «persona» (l’etimo della parola dice che l’io risuona nel rapporto con l’altro) e l’anima vive la dimensione della liberazione dal peccato nell’appartenenza ad un popolo che cammina insieme. Il Paradiso sarà, infine, il luogo della comunione universale, della letizia dei santi, della carità (amore incondizionato che previene e anticipa la domanda portando soccorso e aiuto), del «sorriso di Dio» (Charles Moeller), della carità.
Il lettore contemporaneo si sente più vicino all’Inferno dantesco anche per la difficoltà della lingua di cui si avvale il Sommo poeta. L’altezza e la bellezza del linguaggio, grande pregio della terza cantica, è oggi anche uno degli ostacoli maggiori e quasi insormontabili per un pubblico di lettori che ama sempre meno far fatica.
Il viaggio nel Paradiso richiede un impegno e una fatica che solo la coscienza del pregio e del valore dell’opera permette di affrontare.
Ad ogni modo tutto il viaggio rappresenta il cammino nella vita di ogni uomo. Chi legge la Commedia col cuore non può che percepire come essa parla di lui, della sua aspirazione ad una vita piena, alla felicità e alla salvezza. Intraprendere il viaggio con Dante e iniziare a guardare la profondità del proprio animo e la capacità di male significa guardare la selva oscura in cui ci troviamo, la solitudine del mondo, il non senso che percepiamo nelle nostre giornate. Ogni uomo, quando si trova in difficoltà, vorrebbe risolvere il problema da solo e salire il colle luminoso, la strada giusta, che lui ha visto con i suoi occhi. Da soli, però, non possiamo farcela, perché roviniamo «in basso loco». Allora accade un imprevisto, un incontro che ci salva dalla selva oscura.
La mendicanza è l’atteggiamento più vero che spalanca alla possibilità di salvezza. Da questo atteggiamento scaturisce la possibilità di iniziare a guardare la realtà in maniera più vera, non a partire da quello che abbiamo in mente noi, ma da quanto è più buono, così come Virgilio dice a Dante nel canto primo: «A te convien tenere altro viaggio/ […] se vuo’ campar d’esto loco selvaggio». La proposta che Virgilio fa a Dante è di seguirlo, di stare in sua compagnia. Così, dopo che Dante è ancora preso dalla paura, anche nel secondo canto quando è convinto di non essere all’altezza, o nel terzo canto quando deve varcare la porta sopra alla quale compare l’epigrafe spaventosa («Per me si va nella città dolente»), Virgilio lo prende per mano «con lieto volto» e lo introduce alle «secrete cose». Nel Dante che vuole salire il colle luminoso da solo, all’inizio dell’Inferno, ci ritroviamo noi tutti. Dobbiamo sperimentare che da soli non riusciamo a salire e dobbiamo come Dante mendicare e gridare «Miserere di me». Per grazia incontriamo una compagnia umana che ci salva dalla selva oscura, con cui poter intraprendere il viaggio di salvezza. Non c’è verso della Commedia in cui non si respiri l’esperienza e la fatica di uomini che vogliono fare da soli e rifiutano la luce di Dio o di uomini che, invece, si lasciano abbracciare dall’amore e dalla grazia.
La Commedia parla dell’uomo, della vita, e lo fa con la potenza e la capacità di comunicazione del genio proprio di Dante. Se tutti sono colpiti dalle parole cortesi di Francesca, dalla forza d’animo di Farinata e dal suo desiderio di «ben far», dall’ardore di conoscenza di Ulisse è perché il poeta racconta storie che testimoniano il cuore dell’uomo di ogni tempo. La Commedia ci spalanca una finestra sulla vita e sull’uomo di oggi, come del passato. Avvertiamo una comunione universale tra noi moderni e gli antichi, tra la nostra e la loro aspirazione alla salvezza, alla felicità e all’eternità. Ci accorgiamo che l’antico Dante sa esprimere noi stessi meglio di quanto sappiamo fare noi, così come il maestro Virgilio nel viaggio sa intendere il discepolo meglio di quanto questi sappia fare.
La Commedia è uno degli esiti più grandi e più belli che l’uomo abbia mai partorito. Charles Moeller scrive addirittura che c’è una sola cosa che supera la sua bellezza ed è la bellezza dei santi, persone che hanno incontrato un ideale così grande che nel loro volto è come se incarnassero questa bellezza.
Farideh Mahdavi-Damghani, che ha tradotto la Commedia in persiano, ha scritto:
La gente in Persia non conosceva Ravenna, non sapeva che è la città in cui è sepolto Dante, ma vedendo tutto quello che io amo fare per questa città, leggendo le mie traduzioni, il pubblico persiano ora conosce Ravenna. C’è questo paradosso: siamo lontani dal punto di vista culturale, ma nello stesso tempo siamo molto vicini: le credenze sulla famiglia, sull’emotività, sull’amore per la poesia e la letteratura, cose primordiali che forse per altri paesi hanno minore importanza, sono molto simili in Italia e in Persia. Quindi si può dire che gli italiani somigliano ai persiani.
In un’epoca come la nostra in cui sembra concretizzarsi il disinteresse per la politica profetizzato dall’intellettuale francese Alexis de Tocqueville (1805-1859), in cui si è spesso persa la consapevolezza che l’impegno politico è per il bene comune, giova ricordare la lezione di Dante, quale emerge non solo dalla sua azione indefessa e imparziale all’interno del comune fiorentino prima dell’esilio, ma anche dall’opera principale che dedicò all’attività politica, ovvero il De monarchia.
A distanza di settecento anni la storia dell’Europa, segnata ininterrottamente da guerre, insegna che l’unificazione economico-politica europea ha comportato anni di pace. Nel contempo, questi ultimi decenni sottolineano, però, come in Europa ci siano più volti e anime, non si sappia a chi far riferimento nelle scelte importanti e sia necessaria un’autorità morale. Ora più che mai è evidente che non è possibile realizzare un’unità territoriale su basi economiche e politiche laddove non vi siano dei riferimenti ideali comuni e condivisi.
Nella prospettiva di Dante l’uomo non è mezzo e strumento finalizzato all’Impero (o allo Stato), bensì quest’ultimo ha come fine garantire la libertà della persona e permettere che il singolo possa ricercare la felicità. La politica contemporanea sembra aver dimenticato questa funzione dello Stato sorto dopo l’uomo, dopo la persona e fondata dalle persone per favorire la garanzia dei diritti inalienabili dell’uomo. I diritti e il valore della persona non sono certo per questo fondati sullo Stato, ma sono connaturati all’uomo.