«La gente muore». Allora è meglio prepararsi
La morte è una verità fisiologica, eppure da mesi sembra essere diventata la cosa più spaventosa, quando dovrebbe fare più paura morire da soli o finire in una fossa comune. Invece di terrorizzare le persone, perché non aiutarle ad arrivare alla morte, prossima o lontana, in grazia di Dio? Per chi voglia giungervi preparato, può iniziare con un capolavoro di sant’Alfonso Maria de’ Liguori.
Da mesi e mesi sento ripetere (in riferimento al Covid): «La gente muore!», in diverse varianti. Questa dovrebbe essere una di quelle affermazioni apodittiche in grado di chiudere la bocca a scettici e complottisti: un richiamo alla responsabilità, alla serietà. Non diciamo sciocchezze per rispetto a chi soffre e muore.
E io non capisco. La gente muore, ok. Non è un evento eccezionale. Non è patologico, è fisiologico. La gente muore, punto. È una delle poche certezze della vita. Ma ora, in questo clima di terrore alimentato da soldi che non ci sono per ristori e cassa integrazione, sembra una cosa eccezionale ed eccezionalmente grave. Non sono mancati nemmeno i casi di chi, per paura di aver contratto il Covid, si è suicidato. Ripeto: si è ucciso per paura di morire. Letteralmente, morto di paura. Ok, torniamo seri, la gente muore.
Io sono cresciuto in uno strano paese dimenticato da chiunque ma non da Dio, nella pianura lombarda; e lì sono cresciuto in uno strano momento. Ho, praticamente vissuto nel momento di passaggio tra il Medioevo e la modernità; tra il Concilio di Trento e il Sessantotto. Da una parte c’era la parrocchia, con la porta sinistra per le donne (rigorosamente con il velo) e la porta destra per gli uomini; le panche a sinistra per le donne e le panche a destra per gli uomini. Non ho mai più vissuto un triduo così intenso come quelli della mia infanzia, in veste da chierichetto. L’essenza del Rito ambrosiano. Dall’altra c’era l’oratorio, in quel periodo senza prete per punizione (troppo catto-com). I ragazzi, durante l’oratorio feriale, venivano accolti al canto di El pueblo unido jamàs serà vencido. Ricordo ancora, nello studio del coadiutore, la scritta sul muro alle spalle del sacerdote, in modo che fosse ben visibile a collaboratori e penitenti (allora ci si confessava, negli oratori catto-com): El niño que no estudia, non es un buen revolucionario.
E poi c’erano i funerali, ai quali partecipava, praticamente, tutto il paese. Sì perché, un tempo, tutto il paese era imparentato con chiunque altro; o, perlomeno, conoscente stretto. E se per caso qualcuno aveva pochi parenti e amici? Allora intervenivano le donne come mia zia, che partecipavano ai funerali di chi non conoscevano proprio perché non li conoscevano: sarebbe stata una cosa abominevole che un tizio fosse accompagnato da poche persone, al suo funerale, solo perché era immigrato o particolarmente antipatico o appartenente ad una stirpe poco prolifica. E le vecchie zie ci portavano i bambini, ai funerali. Perché i bambini stavano con le vecchie zie che partecipavano ai funerali. In questo modo, tra l’incenso preconciliare e un canto rivoluzionario, ho imparato presto che la gente muore. E ho imparato che il funerale è una cosa bella e importante.
Ora i media ci dicono che la gente muore e questo sembra essere una cosa assolutamente spaventosa. Sinceramente, a me sembra spaventoso che la gente muoia in ospedale, che muoia sola, sedata; e che finisca cremata o in una fossa comune. Senza funerale. Ma torniamo al punto: la gente muore. Lasciamo stare la movida, gli sciatori, i negazionisti e gli antivaccinisti: la gente muore.
Invece di spaventarla, non sarebbe meglio aiutarla a morire bene? A considerare la morte come una possibilità (se non una necessità)? A prepararsi a morire? Forse i cattolici potrebbero avere qualcosa di interessante da dire, in proposito, no? Un tempo, quando non c’erano i vaccini e la gente moriva, la Chiesa aveva messo a punto un pensiero sulla morte e su quello che segue; mi pare che ci fossero anche un paio di sacramenti per aiutare le persone in questo frangente. Ma forse ricordo male, forse sono solo ricordi della mia strana infanzia tra Medioevo e Rivoluzione.
Comunque sia, ci sono dei «ristori» per chi voglia affrontare la morte (eventuale o sicura) in un modo diverso dal terrore.
Ad esempio, la meravigliosa Passacaglia della vita attribuita al compositore barocco Stefano Landi (1587-1639): «Oh come t’inganni se pensi che gl’anni non hann’ da finire, bisogna morire. È un sogno la vita che par sì gradita, è breve gioire, bisogna morire. Non val medicina, non giova la China, non si può guarire, bisogna morire».
Oppure, quel capolavoro di sant’Alfonso Maria de’ Liguori (1696-1787), dottore della Chiesa, che si intitola Apparecchio alla morte (1758). In questo libro, sant’Alfonso affronta 36 temi legati alla morte, ognuno di essi diviso in punti al termine di ognuno dei quali c’è una preghiera. Il tono è popolare e il contenuto altissimo. Il testo si trova facilmente online. Eccone un assaggio: «Qual pazzia maggior è dunque sapere che si ha da morire, e che dopo la morte ci ha da toccare o un’eternità di gaudi o un’eternità di pene; pensare che da quel punto dipende l’essere o eternamente felice o eternamente infelice, e poi non pensare ad aggiustare i conti e prendere tutti i mezzi per fare una buona morte? Noi compatiamo coloro che muoiono di subito, e non si trovano apparecchiati alla morte: e noi perché poi non procuriamo di stare apparecchiati, potendo anche a noi accadere lo stesso? Ma o presto o tardi, o con avviso o improvvisamente, o ci pensiamo o non ci pensiamo, abbiamo da morire; ed in ogni ora, in ogni momento ci accostiamo alla nostra forca, che sarà appunto quell’ultima infermità, che ci ha da cacciare dal mondo».
Insomma: visto che la gente muore, tanto vale prepararsi. No?