Eutanasia = meno cure, la deriva del Canada è un monito per l’Italia
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La legalizzazione di eutanasia e suicidio assistito ha portato in pochi anni il Canada a negare cure che prima forniva, costringere medici pro vita a cambiare lavoro, colpendo in primis i pazienti più vulnerabili e poveri. Una deriva che dovrebbe far riflettere la classe politica di casa nostra.

La legalizzazione di eutanasia e suicidio assistito fa scivolare rapidamente lo Stato verso una diminuzione e negazione delle cure, non solo per chi chiede di morire ma anche per chi vorrebbe vivere. L’ennesima conferma in questo senso viene dal Canada, dove la cosiddetta “Assistenza medica nel morire” (Maid) è legale dal 2016. E da allora c’è una crescente pressione sui pazienti più vulnerabili perché pongano fine alla loro vita con la morte di Stato, anziché “pesare” sulla sanità pubblica.
Emblematico è il caso descritto da CBC News il 18 settembre scorso. Protagonista della vicenda è una donna della Nuova Scozia, Jennifer Brady, 47 anni, con due figli a casa, che nel giugno 2024 aveva presentato domanda per accedere al suicidio assistito, dopo non essere riuscita a ottenere le cure necessarie per il linfedema (una malattia cronica dovuta all’accumulo di liquidi nei tessuti) di cui soffre. Allora, dopo aver atteso anni e dato fondo ai suoi averi per curarsi all’estero, Jennifer si era arresa perché non era riuscita a ottenere un’impegnativa per essere curata fuori dalla sua provincia d’origine, così da ricevere il trattamento che in Nuova Scozia non erano in grado di darle. La svolta nell’autunno 2024, quando la donna ha vinto una causa contro il Dipartimento della Salute della Nuova Scozia, e il premier Tim Houston si è scusato con lei, promettendo che la provincia avrebbe pagato le sue future cure. Finalmente, nel luglio di quest’anno, Jennifer si è potuta sottoporre a un intervento chirurgico in un ospedale del New Jersey, che per lei ha significato un notevole miglioramento fisico e anche psichico (era depressa). La donna ha quindi ritirato la sua domanda per il suicidio assistito. Una storia con un lieto fine, arrivato però dopo 6 anni di battaglia legale. Altri sarebbero già al cimitero.
Un caso simile, raccontato da Global News nel novembre 2023, è quello di un’altra donna canadese, Allison Ducluzeau, residente a Victoria, che nell’ottobre 2022 aveva cominciato ad avvertire dolore addominale, primo sintomo di quello che si sarebbe poi rivelato un tumore. Indirizzata a un chirurgo di BC Cancer, l’agenzia della Columbia Britannica per il trattamento del cancro, si era sentita dire: «La chemioterapia non è molto efficace con questo tipo di tumore... funziona solo nel 50% circa dei casi per rallentarne la progressione. E la sua aspettativa di vita sembra essere compresa tra i due mesi e i due anni». Il chirurgo le aveva poi chiesto se desiderava accedere all’eutanasia, consigliandole di parlarne con la famiglia e di sistemare le sue cose. Sconvolta, la donna si era messa a cercare dove poter ricevere un trattamento adeguato e alla fine si è fatta curare a sue spese a Baltimora, negli Stati Uniti. E ha detto di essere tornata al lavoro un mese dopo l’intervento. Prima di partire per gli USA, aveva chiamato BC Cancer per chiedere quanto avrebbe dovuto attendere per essere visitata da un oncologo, e le era stato risposto: settimane, mesi o più.
Quelli di Jennifer e Allison sono solo due esempi di una deriva molto più ampia che vede il Canada e altri Paesi – dal Belgio alla Nuova Zelanda, dall’Olanda all’Australia – allargare sempre di più le maglie dell’eutanasia legale, a discapito delle cure. Una situazione ben descritta da un articolo del settembre 2023 di Alexander Raikin per National Review, intitolato: Come l’assistenza alla morte ha soppiantato l’assistenza sanitaria. In particolare, l’autore si è soffermato sui verbali della Canadian Association of MaiD Assessors and Providers (CAMAP), un’organizzazione finanziata dal governo federale del Canada per formare medici e infermieri nella pratica dell’eutanasia. Una formazione all’anti-medicina, insomma. Dai verbali risulta che nei seminari della CAMAP si è discusso dell’uso della sedazione come mezzo per ottenere il consenso finale all’eutanasia in pazienti con una capacità decisionale compromessa, che risultano agitati e magari possono gridare e resistere all’iniezione letale, chiesta in precedenza. Un sotterfugio, dunque, per dare la morte e bypassare il requisito del consenso attuale.
Altro aspetto inquietante è quello dell’eutanasia per povertà: «I vertici della CAMAP – scrive Raikin – hanno ripetutamente negato che i pazienti ricorrano all'eutanasia principalmente a causa della povertà. Eppure, nel 2018, essa ha dedicato un intero panel alla “fornitura di Maid alle popolazioni vulnerabili, indigene, senzatetto e agli anziani fragili”. I relatori hanno descritto come potrebbero “contribuire a emancipare le popolazioni vulnerabili” aiutando “i pazienti a lottare per ottenere opzioni che consentano loro di accedere alla Maid”», cioè a lottare per essere aiutati a uccidersi anziché a curarsi.
La legalizzazione dell’eutanasia in Canada sta avendo ricadute negative sull’esistenza stessa delle strutture e dei medici che intendono curare fino alla morte naturale. Stefanie Green, leader della Camap, aveva sostenuto che l’opposizione degli hospice all’eutanasia sarebbe stata prima o poi superata. Questo sta già succedendo. Nel 2017 l’isola di Vancouver poteva contare su un ospedale cattolico e quattro posti letto in un hospice. Ma già sei anni più tardi, come riportato da Raikin, sulla stessa isola non c’erano più spazi liberi dalla Maid.
Ancora, la situazione del Canada conferma l’assoluta inconciliabilità tra la cultura dell’eutanasia e quella delle cure palliative. Una dottoressa, già direttrice di una clinica per le cure palliative, ha spiegato a Raikin che ha dovuto lasciare il lavoro perché la legalizzazione di eutanasia e suicidio assistito ha reso «semplicemente troppo difficile esercitare la professione medica qui». La stessa palliativista ha ricevuto ripetute molestie via e-mail per aver chiesto pubblicamente che la Maid e le cure palliative fossero separate. Anche un altro medico, Mark D'Souza, ha lasciato le cure palliative per la “contaminazione” della Maid, spiegando: «Stiamo letteralmente facendo del male, anche se sotto le spoglie della compassione».
Questi cambiamenti forzati di lavoro e persecuzioni sono comuni a diversi altri medici contrari alla Maid o anche solo alla sua estensione. Ricordiamo che in Canada, nel 2023, ben 15.343 persone sono morte per eutanasia o suicidio assistito, pari al 4,7% di tutti i decessi nell’anno. E il Canada non è certo un caso isolato, perché simili tendenze sono riscontrabili in tutti i Paesi che hanno legalizzato l’eutanasia, Paesi che all’inizio hanno previsto “paletti” e “requisiti” restrittivi, che col passare degli anni sono stati spazzati via dall’avanzata della cultura di morte, tradotta in leggi e sentenze più permissive.
Quello che avviene all’estero dovrebbe servire da monito per l’Italia, dove in questi giorni di settembre è ripreso, nelle commissioni competenti del Senato, l’iter per l’approvazione del Ddl del centrodestra sul suicidio assistito, con il deposito degli emendamenti. Intanto, un sondaggio promosso dall’Associazione Italiana di Oncologia Medica (Aiom) e dalla Fondazione Aiom, che ha coinvolto 562 medici, ha rilevato che il 63% di loro è a favore dell’eutanasia. Un segno, tra i tanti, che anche da noi ci sono già tutte le condizioni culturali per una deriva simile a quella del Canada, che una legge pro suicidio assistito – aggiungendosi a quella sulle Dat – non farebbe altro che favorire.
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