Mondo multipolare: Xi telefona a Trump per rivendicare Taiwan
Con una mossa diplomatica inedita, il presidente cinese Xi Jinping ha telefonato al suo omologo americano Donald Trump, spiegandogli l'importanza della "riunificazione" di Taiwan alla Cina.
- Venezuela, la guerra prossima ventura di Alberto Leoni
Con una mossa diplomatica inconsueta, lunedì 24 novembre il presidente cinese Xi Jinping ha chiamato il presidente Usa Donald Trump per discutere di Taiwan. Il presidente cinese ha detto al suo omologo che il «ritorno di Taiwan alla Cina» è essenziale per la visione cinese di un «ordine internazionale postbellico».
Benché Xi neghi di aver preso l’iniziativa, fonti del Wall Street Journal informate sui fatti hanno confermato che sia stato lui ad avviare la chiamata mentre le tensioni tra Pechino e Tokyo si intensificano su Taiwan. Per Pechino è soprattutto importante che Washington, alleato di Tokyo, rimanga fedele alla sua posizione "Una sola Cina" che riconosce Pechino come unica capitale e disconosce Taiwan quale Stato sovrano. Principio che invece il Giappone, stando alle accuse cinesi, avrebbe violato. In realtà, la presunta violazione, è solo una dichiarazione della nuova premier Sanae Takaichi, che condanna ogni violazione dello status quo, ogni tentativo cinese di impadronirsi di Taiwan con la forza, considerandolo un attacco allo stesso Giappone.
Xi ha dunque detto a Trump che il «ritorno di Taiwan alla Cina» è essenziale per la visione cinese di un «ordine internazionale postbellico». Un’affermazione che presuppone una sorta di “congresso fra potenze” alla fine della guerra in corso in Ucraina che definisca le sfere di influenza. Trump, tuttavia, non ha menzionato Taiwan nel suo post su Truth Social in merito alla chiamata. Trump ha affermato di aver discusso, con il presidente cinese, della guerra in Ucraina, del fentanil e della soia. Trump ha affermato di aver accettato l'invito di Xi a visitare Pechino ad aprile, aggiungendo che Xi visiterà gli Stati Uniti più avanti l'anno prossimo.
Eppure, secondo le fonti ufficiali cinesi, di Taiwan si è parlato eccome. Con un parallelo storico, Xi ha anche affermato che, poiché Cina e Stati Uniti «hanno combattuto fianco a fianco contro il fascismo e il militarismo» durante la Seconda Guerra Mondiale, ora dovrebbero collaborare per salvaguardare tali conquiste. La Cina tende a basare le sue rivendicazioni su Taiwan su trattati storici, piuttosto che solo sulla propria propaganda. Anche se, a ben vedere, non ha i titoli per rivendicarne il possesso. Il Trattato di San Francisco, con cui il Giappone ha firmato la pace con gli Alleati sei anni dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, prevede la rinuncia della sovranità di Tokyo sull’isola di Taiwan (allora Formosa). Ma allora l’unico Stato riconosciuto come “Cina” era proprio il governo nazionalista di Chiang Kai-shek, con sede a Taipei, Taiwan. Il regime comunista di Mao, appena nato dopo anni di guerra civile, non era riconosciuto all’Onu. Dunque la Cina, secondo il diritto e secondo la storia, non può rivendicare il Trattato di San Francisco per impedire che il Giappone difenda Taiwan, in caso di aggressione.
Il 20 novembre, in piena crisi sino-giapponese, il Dipartimento di Stato americano (il ministero che fa capo a Marco Rubio) aveva twittato: «Il nostro impegno verso l'Alleanza Usa-Giappone e verso la difesa del Giappone, incluse le isole Senkaku amministrate dal Giappone (altre isole che la Cina rivendica come proprie, ndr), è incrollabile. L’Alleanza Usa-Giappone rimane la pietra angolare della pace e della sicurezza nell'Indo-Pacifico. Ci opponiamo fermamente a qualsiasi tentativo unilaterale di cambiare lo status quo, anche con la forza o la coercizione, nello Stretto di Taiwan, nel Mar Cinese Orientale o nel Mar Cinese Meridionale». Una presa di posizione inequivocabile, da parte degli Usa, che spiega perché Xi Jinping si sia precipitato a telefonare direttamente a Trump. Contrariamente al suo establishment, il presidente americano si è dimostrato più influenzabile soprattutto nei confronti diretti uno-a-uno con l’omologo cinese. Nel vertice di Busan, lo scorso 30 ottobre, l’argomento “Taiwan” era stato evitato. Ma già allora i cinesi avevano tutta l’intenzione di far cambiare idea alla controparte, mirando a ottenere dagli Usa una dichiarazione formale con cui viene condannata ogni iniziativa di secessione di Taipei da Pechino. Lo faranno di nuovo.
L’intenso lavorìo diplomatico di Pechino contro Taiwan non è una novità: la Cina ha sempre cercato di isolare internazionalmente Taiwan. C’è un elemento in più: i preparativi cinesi per una guerra vera, nello stretto di Taiwan. Anche questi ultimi non sono una novità: dal 1949 la Cina si prepara a un’invasione dell’isola, in modo più o meno intenso. Le crisi nello stretto sono abbastanza frequenti, basti pensare a quella del 2022, seguita alla visita di Nancy Pelosi (allora presidente della Camera negli Usa) a Taiwan. Gli esperti militari statunitensi ripetono soprattutto una data: il 2027. Non è la data dell’invasione, che nessuno può prevedere, ma l’anno in cui si prevede che le forze armate cinesi raggiungeranno il livello di prontezza necessario all’invasione, l’anno in cui i rapporti di forza locali saranno sbilanciati a favore di Pechino.
Nel 2027 e 2028, salvo imprevisti, il presidente degli Usa sarà ancora Trump. Per questo la Cina se lo sta lavorando fin da ora. Xi conta soprattutto sulla sua visione del mondo. Trump, più dei suoi predecessori (e della sua stessa amministrazione nel primo mandato) accetta l’idea di un mondo multipolare. Un mondo diviso nelle sfere di influenza russa, cinese e americana. Come Cina e Russia stanno chiudendo un occhio o anche due sui preparativi di guerra di Trump contro il Venezuela, come Trump accetta l’idea che Putin occupi porzioni di Ucraina e ritorni influente nell’Europa orientale, così Xi pretende di veder riconosciuta la sua prossima “riunificazione” (così la chiama) di Taiwan.

