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Così si è frantumato il sogno dell'Occidente

«La globalizzazione è finita, anzi forse non è cominciata». È la diagnosi del professor Eugenio Capozzi che, nel libro Storia del mondo post-occidentale, ripercorre il repentino dissolversi dell'illusione di un mondo unipolare e globalizzato all'indomani della Guerra fredda. A trent'anni di distanza l'Occidente, che sembrava destinato a restare l'unico attore sulla scena mondiale, si è piuttosto ridimensionato, complice anche il venir meno della propria identità.

Attualità 06_02_2023

All’indomani della Guerra fredda, venuto meno il colosso sovietico e il rigido “equilibrio” bipolare che aveva dominato i decenni precedenti, la scena politica sembrava “semplificata” sul piano politico e il mondo pareva avviarsi verso un ordine fondato sul modello occidentale, con il graduale superamento dei conflitti, all’insegna dell’integrazione e della globalizzazione. Tuttavia non è andata così, spiega Eugenio Capozzi, docente di Storia Contemporanea all'Università Suor Orsola Benincasa di Napoli, nel suo Storia del mondo post-occidentale. Cosa resta dell’età globale? (Rubbettino, Soveria Mannelli 2023). La globalizzazione, afferma Capozzi, «è finita. O, molto probabilmente, non è mai davvero cominciata».

Storia del mondo post-occidentale è la storia della rapida fine dell’illusione di un mondo unipolare a guida USA che – dopo la Guerra fredda – sarebbe inesorabilmente seguito al crollo dei regimi sovietici e dell’altrettanto rapida disintegrazione del sogno globalista che ha poi caratterizzato il passaggio tra il XX e il XXI secolo. «Più di trent’anni dopo», osserva l’autore, «il peso dell’Occidente a livello planetario si è sicuramente ridimensionato», e «soprattutto, sono cresciute enormemente la quantità e l’entità di conflitti economici, politici, di potenza, etnico-nazionalistici, religiosi, culturali». Con l’emergere di un nuovo attore come la Cina che con Xi Jinping sta giocando il ruolo di superpotenza sulla scena mondiale. Quello che attualmente viviamo è piuttosto un mondo multipolare – lo era anche prima sotto la “coltre” della guerra fredda che mimetizzava i numerosi «conflitti di faglia» destinati a riesplodere.

Nel 1990 George H. Bush aveva parlato della necessità di un nuovo ordine mondiale, intendendo con questa formula «un governo generale di problemi e conflitti mondiali che prendesse atto dei mutati equilibri rispetto all’epoca della Guerra fredda». Nel nuovo contesto la superpotenza americana avrebbe assunto la funzione di «poliziotto del mondo», in coordinamento con l’Onu, idea portata avanti da Bill Clinton. Ma già gli insuccessi nel focolaio della Somalia mostrarono «il primo fallimento delle ambizioni di “polizia internazionale” del new world order», così come la guerra in Rwanda rappresentò «un eloquente monito del fatto che, nel mondo post-Guerra fredda, i fattori di instabilità erano troppi e troppo eterogenei per consentire un lineare ordine internazionalistico assicurato da una forza unica».

A complicare lo scenario internazionale contribuì «un cambiamento politico-culturale sostanziale» in atto nel mondo islamico, dove maturava il rifiuto tout court di qualsiasi modello occidentale per tornare alla umma, che fondeva l’identità politica con quella religiosa. «In questa ossessione restauratrice si inscriveva una reviviscenza della retorica della jihad» e «un progressivo intensificarsi di azioni violente contro la presenza statunitense e occidentale in tutta l’area islamica», sin dagli anni Novanta, «riconducibili a una sempre più fitta e fluida rete terroristica islamista: quella che venne definita Al Qaida (“la base”)».

Sono però anche gli anni del sogno globalista, favorito da «una crescita economica sempre più decisa» e da «un imponente aumento degli scambi internazionali». Il presidente Clinton attribuiva «un ruolo benefico, finanche “democratico” della globalizzazione economica, per lui portatrice di effetti considerevoli di uguaglianza sociale». In quest’ottica si inscriveva anche l’ammissione della Cina nell’Organizzazione mondiale per il commercio, sancita nel dicembre 2001: coronamento della visione ottimistica del processo di globalizzazione, in cui «le dinamiche del mercato e della finanza mondiale si sposavano spontaneamente con ordinamenti fondati sulla libertà, i diritti umani, l’uguaglianza politica, il pluralismo». E come veicolo di pacificazione mondiale.

Questa «visione “teleologica” della globalizzazione» era alimentata in misura rilevante dalle innovazioni digitali, in particolare internet, che «realizzava il sogno di una comunicazione personalizzata a livello globale», inaugurando la cosiddetta new economy, comprendente tutte le imprese connesse alle nuove tecnologie e «che operavano nello spazio “immateriale” di internet». La bolla finanziaria che ne derivò si sgonfiò nel giro di pochi anni, ma la fiducia illimitata riposta nei nuovi attori tecnologici ed economici «era sintomatica di un clima generale in cui si riteneva che nei processi di globalizzazione in corso praticamente tutto diventasse possibile».

Nel frattempo, si faceva strada anche la critica alla globalizzazione. A sinistra si espresse soprattutto nei movimenti no global, «che toccò il suo apice tra il 1999 e il 2001, soprattutto nelle violente ondate di contestazione di Seattle e di Genova, in occasione del G8». Tuttavia la visione globalista rimase generalmente prerogativa della sinistra, mentre a destra negli anni Dieci si sarebbero affermati i fenomeni del sovranismo e del populismo, nell’ambito di un mutamento nella dialettica politica: dal classico destra/sinistra al sovranismo/globalismo.

In ogni caso, l’inesorabilità della globalizzazione (e della connessa occidentalizzazione del mondo) «era frutto di una percezione alterata dell’evoluzione della politica e dell’economia mondiale del post-1989». Al new world order era subentrata la scoperta dello scontro di civiltà, che lo studioso Samuel Huntington nel 1993 definiva già esistente, ma dissimulato dall’epoca delle ideologie. Finita la quale, sarebbero riemersi «i conflitti strutturali più profondi: le “guerre di faglia” tra le diverse civiltà». Una tesi che apparve sotto una luce nuova dopo il tragico attentato del 2001 alle Torri Gemelle.

Sul fronte ormai ex sovietico numerosi Paesi dell’est guardavano a Occidente (negli ordinamenti liberaldemocraici e nell’adesione alla Nato e/o alla Cee). La Russia di Boris Eltsin, da parte sua, «tendeva in un’analoga direzione». Non più in grado di proseguire la politica imperialista, «dava l’impressione che, una volta stabilizzata la transizione a democrazia ed economia di mercato, sarebbe stata integrabile» nella sfera occidentale. Tuttavia, il «passaggio repentino da una struttura statuale dittatoriale per molti versi si era rivelato traumatico», traducendosi in «un generale abbassamento della qualità della vita della popolazione». Un contesto favorevole al risveglio di «fenomeni di nostalgismo post-comunista o di nazionalismo» e alla richiesta di una «riaffermazione forte del governo federale» incarnata da Vladimir Putin, direttore dell’ex Kgb, che lo stesso Eltsin nominò suo primo ministro nel 1999.

Fin qui solo le premesse di quel mondo post-occidentale delineato dall’autore, segnato da aspetti tutt’altro che irrilevanti quali l’inverno demografico dell’Occidente, dovuto essenzialmente a mutamenti culturali all’insegna del rifiuto del passato e di uno stile di vita edonista con significative conseguenze anche economiche – dallo «sbilanciamento del rapporto tra persone lavorativamente attive o potenzialmente attive e pensionati» alla prevalenza di «spese voluttuarie rispetto a investimenti durevoli». Il vuoto demografico (colmato dall’immigrazione) si traduce anche in vuoto di manodopera e persino in una perdita di iniziativa politica sulla scena mondiale.

L’Occidente si è andato così configurando come un’eccezione sul piano mondiale, «in controtendenza rispetto al resto del pianeta» relativamente al crollo della popolazione ma anche al venir meno della propria identità fondata sul patrimonio ebraico-cristiano e sulla concezione della persona sorta su di esso. La secolarizzazione di massa è divenuta la nuova religione. Il fine della vita si è ristretto «alla conservazione della pura esistenza materiale degli individui» e la perdita del senso del dolore e della morte ha lasciato spazio a una «paura generalizzata» e a un «cupo pessimismo, che configura sempre più la rinuncia a ideali, obiettivi ambiziosi, progetti privati e pubblici a lungo termine».