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A Firenze la pastorale dell'inclusione esclude il Catechismo

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Magistero e teologia da "svecchiare" per don Simone Bruno nel primo di una serie di incontri  all'insegna dell'adeguamento al nuovo dogma omosessualista. Ma per un prete presente in sala il problema è La Bussola.

Editoriali 30_10_2024

L’Arcidiocesi di Firenze e il Coordinamento per una Pastorale di Inclusione del Centro Diocesano di Pastorale familiare hanno lanciato l’iniziativa “Quattro passi di inclusione”, quattro conferenze su omosessualità e transessualità. Lo scorso sabato 26 ottobre, presso il Teatro parrocchiale di S. Maria al Pignone a Firenze, si è svolto il primo incontro dal titolo “La famiglia – le famiglie, oggi, modelli culturali ed esperienze pastorali” con don Simone Bruno, psicoterapeuta, direttore editoriale di Edizioni San Paolo e de Il Giornalino, nonché nostra vecchia conoscenza, e la testimonianza di Francesca e Annamaria, coppia lesbica unita civilmente. Presente l’arcivescovo Gherardo Gambelli e alcuni membri di Kairos, gruppo di persone LGBT+ che cercano di piegare la dottrina cattolica al credo gender. In sala anche don Andrea Bigalli, sostenitore della Teologia della liberazione, che cita la Bussola asserendo che siamo una realtà scismatica e che scriviamo «cose micidiali» (qui).

Partiamo dalla coppia lesbica, «uno spaccato di una bellezza unica» commenterà poi don Bruno.  Francesca  racconta che si sono conosciute in occasione di una veglia contro la cosiddetta omotransfobia svoltasi in una chiesa cattolica. Poi costruisce l’immagine romanticheggiante di una qualsiasi coppia di credenti:  «dovevamo diventare l’una l’eternità dell’altra», «noi all’interno della chiesa ci volevamo stare», «siamo una famiglia», «il pregiudizio è tanto derivato dalla non conoscenza». La coppia poi conclude la testimonianza raccontando che hanno avuto molti minori in affido, anche neonati, e una bambina data in adozione ad una sola di loro due. Naturalmente  il luogo e il contesto dove si è svolta la conferenza legittimano questa unione anche perché, durante l’incontro, non ci sono state voci dissenzienti, ma solo consenzienti.

Passiamo a don Bruno il quale racconta che, tenendo un corso per fidanzati, una volta si imbatté in una coppia dove lui era divorziato. La lei della coppia allora gli chiese: « Noi siamo sempre una famiglia?». Don Bruno avrebbe preferito «sparire nel nulla». Preso però coraggio così replicò: « In tutta onestà io non so rispondervi. Lo ammetto, non sono preparato. […] Da quel momento tante certezze, tante sicurezze, tutte le teorie che proponevo hanno iniziato un po’ a traballare». E quindi da allora don Bruno iniziò a studiare «tutti i modelli antropologici, sociologici, filosofici che parlano oggi di famiglia» per mettere in dialogo la Chiesa con il mondo contemporaneo. E dunque la fede non si basa sulla Rivelazione, bensì sulle rilevazioni statistiche: «esistono dei dati che rendono alcune parti sia del Magistero che della teologia un attimino da svecchiare».

Dunque don Bruno ha interrogato la sociologia, la psicologia, l’antropologia, la filosofia, ma non la Bibbia, non la Tradizione, non il Magistero di sempre. È il classico approccio che vede nelle scienze sociali lo strumento interpretativo unico ed eccellente della fede, perché realtà priva di trascendenza, al fine di  giungere alla verità, una verità condannata ad aggiornarsi sempre a motivo delle nuove scoperte scientifiche. Ed infatti don Bruno sentenzia: «bisogna prendere atto che la famiglia a 360 gradi è in continua trasformazione. Mettiamocelo in testa».

Ancor più semplicemente per don Bruno tutte le relazioni esistenti per il mero fatto che esistono sono da benedire. «Non possiamo nemmeno condannare quello che accade», per citare le sue parole. È la resa al male esistente.
Questa impostazione propria delle fenomenologia lo porta a dire, ad esempio, che «la convivenza è diventata una delle tappe del ciclo di vita della famiglia», asserendo così che la convivenza è famiglia. Nessuna condanna della convivenza quindi, a differenza del Catechismo della Chiesa cattolica (cfr. 2390) e, ad esempio, dell’enciclica Casti connubii di Pio XI il quale definisce le convivenze come «turpi connubii».

Poi si arriva al piatto forte, le coppie gay: «piano piano la società sta aprendo, e la Chiesa anche, la possibilità di riconoscere le coppie omoaffettive». Di fronte all’obiezione, da lui stesso sollevata, che il Catechismo condanna l’omosessualità, don Simone così ribatte: «ricordiamoci che il Catechismo è stato scritto qualche anno fa quando non c’erano ancora i contenuti certi e delle scoperte, la Chiesa fa quello che può». San Paolo sta peggio allora, dato che è ben più datato, quel San Paolo che non fa entrare nel Regno dei Cieli – ed è parola di Dio – chi compie il peccato mortale di atti omosessuali. Non parliamo poi del Vecchio Testamento che già nel nome si condanna da sé e si esclude dall’aggiornamento teologico di don Bruno.

Ma torniamo al Catechismo. Quest’ultimo nel n. 2357 riproponeva ieri e ripropone oggi la dottrina di sempre. Vi sono atti e condizioni che saranno sempre contro natura, checché ne dicano la sociologia e la psicologia. In caso contrario nulla ci vieta di pensare che, ad esempio, la pedofilia un giorno potrà essere considerata una forma naturale di espressione affettiva tra adulto e bambino. Detto tutto ciò a don Bruno sfugge un dato di fondo: l’omosessualità non è un bene per le persone, anche se il percepito soggettivo è diverso. Non tutto ciò che sembra bello è buono per davvero.

Poi un’altra chicca: «l’orientamento sessuale non è scelto da nessuno […] nessuno di noi lo può scegliere». Questa è una invenzione della psicologia recente, tesa a legittimare l’omosessualità. La genesi dell’omosessualità, almeno quella maschile, è probabilmente da addebitare alla mancanza della presenza paterna nella vita del ragazzo. Ma ammesso e non concesso che “si nasce gay”, non tutto ciò che è innato è secondo natura. Anche nel caso in cui l’orientamento omosessuale fosse necessitato, ciò eliminerebbe la colpa in merito agli atti, ma la condotta omosessuale rimarrebbe intrinsecamente malvagia e l’omosessualità intrinsecamente disordinata. Due buoni motivi per lasciarsi alle spalle questa inclinazione.

Proseguiamo. Una ragazza chiede: se c’è apertura verso le coppie omosessuali, perché la Chiesa non si apre anche alle relazioni non monogamiche? Risposta del direttore de Il Giornalino: «C’è un cammino e un lavoro da fare nella sensibilizzazione. Sta iniziando. Questa traccia di speranza voglio dartela. […] Pian piano, piano si sta entrando in una modalità di comprensione. […] Ci vorrà del tempo». Avete capito bene: il direttore delle Edizioni San Paolo apre alla poligamia. Comunque dobbiamo ammettere che è coerente: date le premesse erronee – qualsiasi relazione affettiva va bene – arriva necessariamente a conclusioni altrettanto erronee – lecita anche la poligamia e, crediamo implicitamente, il poliamore che è la declinazione plurima delle coppie di fatto. Ed infatti indica come motivo di speranza per le relazioni poliaffettive proprio la storia di Annamaria e Francesca.

Chiude l’incontro l’arcivescovo Gherardo Gambelli, il quale doverosamente cita l’Evangelii gaudium di Papa Francesco: «la realtà è più importante che l’idea». È il pensiero crociano: «per essa [la storia] non ci sono fatti buoni e fatti cattivi, ma fatti sempre buoni. […] La storia non è mai giustiziera, ma sempre giustificatrice» (B. Croce, Teoria e storia della storiografia, Laterza, Bari, 1917, pp. 76-77). È la tesi già espressa da don Bruno: i fatti si autogiustificano. La dottrina deve far posto o piegarsi ai fenomeni sociali. Non è il mondo che si deve convertire alla Chiesa, ma quest’ultima al mondo. La lezione storicista è stata appresa alla perfezione da Sua Eccellenza che infatti rivela compiaciuto: «quando sono stato a cena da Annamaria e Francesca ho capito tantissime cose». Ma forse non quelle giuste.



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