Via libera di monsignor Paglia all'uccisione di Alfie
In una surreale intervista, il presidente della Pontificia Accademia per la Vita legittima le decisioni di medici e giudici inglesi che hanno deciso di staccare il respiratore che tiene in vita il piccolo Alfie Evans. E incredibilmente concorda nella strumentalizzazione delle parole del Papa che il giudice ha usato per giustificare la sua decisione ai due genitori cattolici.
- NON PUO' PIÙ RESTARE A CAPO DELLA PAV, di Riccardo Cascioli
Alfie Evans, di 21 mesi, è affetto da una grave patologia neurodegenerativa di probabile origine genetica (clicca qui). Ad Alfie manca poco da vivere, non tanto perché la sua patologia ormai abbia svuotato quasi completamente la clessidra del tempo che gli rimane da vivere, ma perché, come nel caso di Charlie Gard, l’Alta Corte di Londra ha deciso che il piccolo vada ucciso staccandogli il respiratore che lo tiene in vita. Il giudice Hayden ha così voluto chiudere la vicenda: «Sono convinto che il continuo sostegno di un respiratore non sia più nell’interesse di Alfie». I genitori si sono opposti, ma finora senza successo.
Sulla vicenda del piccolo paziente inglese Tempi.it intervista mons. Vicenzo Paglia, presidente della Pontificia Accademia per la Vita (PAV). Per mons. Paglia non si tratta di eutanasia, ossia di omicidio, bensì di rifiuto di accanimento terapeutico: «Parlare di ‘soppressione’ non è né corretto né rispettoso. Infatti se veramente le ripetute consultazioni mediche hanno mostrato l’inesistenza di un trattamento valido nella situazione in cui il piccolo paziente si trova, la decisione presa non intendeva accorciare la vita, ma sospendere una situazione di accanimento terapeutico. Come dice il Catechismo della Chiesa cattolica si tratta cioè di una opzione con cui non si intende "procurare la morte: si accetta di non poterla impedire" (CCC 2278)».
Dunque per il presidente della PAV permettere ad un paziente di continuare a vivere in una condizione di disabilità è accanimento terapeutico. Ma le cose non stanno così. La decisione dei medici e giudici infatti è una decisione eutanasica.
A dare la prova di ciò è proprio il documento Iura et bona della Congregazione per la Dottrina della Fede citato dallo stesso Paglia nell’intervista, documento che fornisce la seguente definizione di eutanasia: «Per eutanasia s’intende un’azione o un’omissione che di natura sua, o nelle intenzioni, procura la morte, allo scopo di eliminare ogni dolore» (II). Questa definizione si applica alla perfezione al caso di Alfie: si vuole procurare la sua morte staccandogli il respiratore al fine di evitare a lui la sofferenza (psicologica?) di vivere in quello stato. Si tratta di un omicidio per fini pietistici. Così il Catechismo della Chiesa cattolica: «Qualunque ne siano i motivi e i mezzi, l'eutanasia diretta consiste nel mettere fine alla vita di persone handicappate, ammalate o prossime alla morte». Definizione che pare pensata apposta per il caso di Alfie.
Di contro mantenere in vita una persona in uno stato di disabilità non è accanimento terapeutico, come sostiene Paglia, ma atto doveroso di cura. A dircelo in modo limpido è proprio il Catechismo della Chiesa cattolica due numeri precedenti al numero citato da Paglia: «Le persone ammalate o handicappate devono essere sostenute perché possano condurre un'esistenza per quanto possibile normale» (2276). Gli handicappati come Alfie devono essere sostenuti, non uccisi.
L’accanimento terapeutico si realizza quando c’è una sproporzione tra mezzi applicati e risultati sperati (CCC 2278). Si tratta in definitiva di trattamenti inutili e futili. Ora il respiratore che tiene in vita Alfie non è un trattamento sproporzionato agli obiettivi, ma assolutamente proporzionato al suo fine proprio, ossia ossigenarlo e quindi mantenerlo in vita. Non è il respiratore la causa delle sue pessime condizioni di salute, bensì la sua patologia. Ma dato che, per riprendere le parole di Paglia, si è appurata «l’inesistenza di un trattamento valido nella situazione in cui il piccolo paziente si trova» allora si è presa la decisione di ucciderlo.
Si vuole far morire il piccolo perché non può migliorare, perché non ci sono terapie risolutive. La decisione dei medici dunque si incardina sul principio della qualità della vita e non sul rispetto della dignità della persona, anche di quella disabile. Quindi non è pertinente la citazione che Paglia fa del n. 2278 del Catechismo «non si intende procurare la morte: si accetta di non poterla impedire», perché qui si procura la morte staccando il respiratore potendo benissimo impedirla, ossia procrastinarla per quello che è umanamente possibile innanzitutto non interrompendo la ventilazione assistita. Ciò che dice dunque mons. Paglia è l’esatto contrario di ciò che dice il Magistero.
Poi mons. Paglia cita un discorso di Pio XII del 1957 «Ai membri dell'Istituto Italiano di Genetica ‘Gregorio Mendel’ sulla rianimazione e respirazione artificiale» (clicca qui) ed afferma che «già Pio XII nel 1957 sosteneva che ci sono casi in cui è legittimo sospendere la ventilazione assistita». In realtà in questo documento il pontefice tratta, tra gli altri argomenti, della cessazione della ventilazione meccanica all’interno delle manovre di rianimazione, cessazione ritenuta moralmente lecita quando configura un trattamento sproporzionato. Ma la ventilazione assistita a cui è sottoposto Alfie è assolutamente proporzionale ai fini propri, secondo i principi espressi proprio da Pio XII. Quindi il richiamo non è pertinente. E’ invece pertinente al caso di Alfie il seguente passaggio del documento di Pio XII appena citato: «La ragione naturale e la morale cristiana dicono che l'uomo (e chiunque sia incaricato di prendersi cura dei suoi simili) ha il diritto e il dovere, in caso di malattia grave, di prendere le misure necessarie per preservare la vita e la salute».
Mons. Paglia inoltre si avventura anche sul terreno giuridico. All’obiezione sollevata dal giornalista Valerio Pece attinente al fatto che i giudici inglesi avrebbero strumentalizzato le parole del Papa citandole in sentenza, Paglia di contro articola una riflessione dal sapore vagamente teocratico che assolve l’operato dei magistrati inglesi: «Il giudice, considerando che i genitori sono cattolici, decide di prendere in esame anche la posizione della Chiesa. E si riferisce allora a tre testi, riscontrando tra di essi una completa coerenza: il Catechismo, il documento sull’eutanasia della Congregazione per la Dottrina della Fede del 1980, il discorso del Papa del 2017». Ma i magistrati – proprio secondo il portato dottrinale cattolico – sono chiamati a giudicare in base a leggi civili, certamente ispirate alle legge naturale che è patrimonio anche della Chiesa cattolica, non in base al Catechismo. L’operazione che ha fatto il giudice è quindi furba ed iniqua: usare strumentalmente alcuni documenti della Chiesa per far dire ad essi cose prendendo a pretesto il fatto che i due genitori sono cattolici. A rigore ed assecondando il plauso che il presidente della Pav rivolge a questo espediente giurisprudenziale di carattere teologale, dovremmo chiedere ai giudici che emettono verdetti relativi a cause che coinvolgono cittadini islamici di applicare il Corano e la sharia. Cuius religio, eius ius.
Infine Paglia si pronuncia sulla recente legge sulle Dat. Gli viene ricordato dall’intervistatore il giudizio temerario, perché positivo, sulla legge espresso dal Gruppo di studio sulla bioetica dei Gesuiti e pubblicato su Aggiornamenti sociali, legge che secondo questo Gruppo conterrebbe «numerosi elementi positivi e rappresenta un punto di mediazione sufficientemente equilibrato da poter essere condiviso». Paglia non critica questa valutazione, bensì rilancia e cita un giudizio espresso dal Consiglio direttivo dell’Unione Giuristi Cattolici Italiani: «La pretesa di dare alla legge una lettura eutanasica è arbitraria e contraria allo spirito della stessa». Quindi per Paglia la legge sulle Dat non legittima l’eutanasia. Il giudizio è infondato come abbiamo spiegato da queste colonne più volte (vedi qui, qui, qui, qui e qui).
Da ultimo il presidente della Pav pare sposare sia la dialettica hegeliana che l’etica fenomenologica: «Su temi che richiedono conoscenze specifiche e riguardano la vita sia della persona, sia della società, le idee maturano nel dialogo e nel confronto, anche all’interno della comunità ecclesiale. La diversità di opinioni nella Chiesa costituisce una ricchezza. […] Le leggi di uno Stato rappresentano una mediazione tra posizioni differenti». Vero è, come afferma Paglia, che oggi le idee non di rado maturano nel dialogo, ma non per questo tutte le idee maturate nel dialogo sono da accettare. Parimenti le diversità di opinioni sono una ricchezza se sono tutte vere e si distinguono solo per le modalità di vivere il bene. In modo analogo è inconfutabile il fatto che le leggi spesso oggi rappresentino una mediazione, ma tale mediazione non è sempre accettabile, ad esempio quando la legge vuole applicare il compromesso su principi non negoziabili. In breve pare che per Paglia il momento descrittivo coincida con quello prescrittivo, ossia che è bene che sulla vita decidano il confronto e il dialogo, dentro e fuori dal Parlamento, perché ormai è così che si fa. Ma il dialogo e il confronto non sono le fonti della moralità indicate dal Magistero (cfr. CCC 1750 ss; Giovanni Paolo II, Veritatis splendor, n. 78).