Via dall'Afghanistan, la sconfitta nascosta
L’Italia, gli Usa e la Nato hanno ammainato le bandiere a Herat, sede del contingente italiano in Afghanistan. Il bilancio per gli italiani, in vent'anni di guerra a bassa intensità, è di 54 morti e 700 feriti. Il costo dell'operazione è stato di 10 miliardi di euro. Fuor di retorica: andarcene adesso è una sconfitta. I talebani sono all'attacco ovunque.
L’Italia, gli Usa e la Nato hanno ammainato le bandiere a Herat, sede del contingente italiano in Afghanistan che conta ancora 600 militari, imprimendo una ulteriore accelerazione al ritiro dall’Afghanistan che si concluderà entro il 4 luglio. Il ritiro delle truppe americane e alleate è già stato completato al 50% come ha sottolineato il generale Frank McKenzie, alla guida del Comando Centrale Usa.
Molte le frasi di circostanza pronunciate da leader politici e militari, anche italiani, che in alcuni casi si sono avventurati in bilanci per forza di cose intrisi di positività, circa l’operato dei militari italiani a favore delle forze di sicurezza e della popolazione afghane. Parole che non riescono a nascondere un fatto ineluttabile: nessuno dei risultati e dei successi conseguiti tra il 2002 e il 2011 a prezzo di sudore, sangue e denaro è stato risparmiato dall’annichilimento che, prima il ritiro delle forze combattenti tra il 2012 e il 2014, e ora il ripiegamento delle forze di supporto alleate hanno determinato.
Come ha ricordato ieri Fausto Biloslavo su il Giornale «in Afghanistan non abbiamo vinto e l’ammaina bandiera ad Herat assomiglia molto ad una sconfitta semi nascosta e mascherata da orgogliosi discorsi ufficiali. La realtà sul terreno è che, nel solo mese di maggio, 26 fra avamposti e basi delle forze di sicurezza afghane, in quattro province, si sono semplicemente arresi ai talebani. Gli insorti jihadisti minacciano 17 dei 34 capoluoghi afghani e sono ben attestati a 50 chilometri da Kabul, nella provincia di Wardak, la porta d’ingresso della capitale. Nel 2014, quando la Nato aveva deciso di passare il testimone della sicurezza agli afghani, nessun capoluogo era sotto tiro. Solo negli ultimi tre anni i talebani hanno conquistato il doppio dei distretti (88) e contrastano la presenza governativa in altri 213. Secondo alcune stime gli eredi di mullah Omar controllano già il 60% del territorio a parte le grandi città».
Tra il 5 e il 7 giugno due distretti sono caduti nelle mani dei talebani (sette da inizio maggio). Nel distretto di Shahrak, provincia nord-occidentale di Ghor, le forze di sicurezza afghane hanno attuato una "ritirata tattica" di fronte all'offensiva dei talebani, ha riferito il governatore Abdul Zahir Faiz, precisando che 7 militari sono stati uccisi e 3 feriti, mentre tra le fila degli insorti sono stati 18 i morti e 24 i feriti. I talebani hanno preso il controllo anche del distretto di Doab, nella provincia orientale del Nuristan, abbandonato dalle forze governative dopo 20 giorni di resistenza per l'impossibilità di ricevere rifornimenti. Il distretto collega le province del Panjshir e del Badakhshan al Nuristan e i talebani ora minacciano la vicina provincia del Laghman. Almeno 14 agenti di polizia sono stati uccisi il 5 giugno nell’attacco dei talebani al quartier generale della polizia nella provincia settentrionale di Faryab. L’uccisione di 10 sminatori, altri 16 feriti, dell'organizzazione britannica Halo Trust nella provincia di Baghlan è stato invece rivendicato dallo Stato Islamico.
Come riporta il New York Times, anche i rapporti della Cia sono sempre più pessimistici di fronte alle conquiste talebane nel Sud e nell'Est, e c'è la preoccupazione che Kabul possa cadere nelle mani dei miliziani nel giro di qualche anno, tornando a essere un rifugio sicuro per terroristi. Uno dei nodi è la perdita delle basi aeree in Afghanistan utilizzate dal Pentagono per lanciare missioni operative e raid dei droni, che monitorano da vicino talebani e altri gruppi militanti. I vertici militari sono impegnati nel trovare sostituti ma al momento non ci sono ancora accordi con i Paesi vicini, specie Tagikistan, Kazakistan e Uzbekistan, tutti però nell'orbita di Mosca con cui Washington è ai ferri corti.
La Nato sconfitta sta valutando come continuare a fare formazione per le forze di sicurezza afghane fuori dall'Afghanistan, come ha dichiarato il segretario generale, Jens Stoltenberg. Il ritiro è in corso e «la nostra principale preoccupazione è mantenere la sicurezza per le nostre truppe», mentre lasciano il Paese. E poi «come preservare» i risultati conseguiti. «Noi continueremo a sostenere gli afghani», «continueremo a dare fondi alle forze di sicurezza» e «stiamo guardando a come poter fare per fare formazione fuori dall'Afghanistan», perchè «possiamo formare le forze di sicurezza in altri Paesi», e a «come mantenere le infrastrutture critiche come gli aeroporti». Quindi «la Nato continuerà ad essere impegnata in Afghanistan, ma in un modo diverso», ha detto.
Di certo in un Afghanistan che teme il ritorno dei talebani entro pochi mesi non mancheranno i militari governativi disponibili a “farsi addestrare” all’estero. A dispetto poi del convincimento diffuso che nessuno Stato membro dell’Alleanza Atlantica possa mantenere da solo (o con altri alleati) una presenza militare in Afghanistan in assenza degli Stati Uniti, va rilevato che la Turchia ha annunciato di essere pronta a mantenere le sue truppe a Kabul anche dopo il previsto ritiro dei contingenti degli altri Paesi della Nato, se le sue richieste di sostegno politico, finanziario e logistico verranno soddisfatte dagli alleati. Lo ha detto nei giorni scorsi il ministro della Difesa di Ankara, Hulusi Akar, spiegando che colloqui al riguardo si sono tenuti con gli Stati Uniti e all'ultimo incontro dei ministri della Difesa dell'Alleanza Atlantica. «Se queste richieste verranno soddisfatte, potremo restare all'aeroporto internazionale Hamid Karzai» di Kabul, ha spiegato Akar. «L'obiettivo è quello di garantire la pace in Afghanistan. Abbiamo una fratellanza storica e vogliamo poter restare finchè il popolo afghano vorrà il nostro aiuto», ha aggiunto il ministro. Al momento, la Turchia schiera a Kabul 500 militari nell'ambito dell’Operazione Nato Resolute Support.
Per l’Italia il bilancio di questa guerra perduta non è più amaro di quello degli altri più importanti membri della Nato. Possiamo discutere a lungo di una guerra il cui senso è stato azzerato da un ritiro determinato dagli Stati Uniti con i negoziati unilaterali di Doha coi talebani, ormai incapaci quasi quanto gli europei di reggere politicamente e socialmente un conflitto prolungato anche se a bassa intensità. Possiamo riflettere se quella afghana sia stata anche una “nostra guerra” o se ci siamo limitati a pagare un obolo (costoso e sanguinoso alla luce dei 54 caduti, oltre 700 feriti e oltre 10 miliardi di euro spesi) all’alleanza con gli Usa; conclusione a cui giunsero per esempio i francesi dopo il ritiro dei loro soldati nel 2011. Paolo Mieli, sul Corriere della Sera ha lamentato la scarsa visibilità sui media occidentali del ritiro dall’Afghanistan ma la ragione è facile da comprendere, anche per noi italiani. Fuggiamo a gambe levate, abbandonando un intero popolo ai suoi aguzzini, da un territorio in cui siamo stati sconfitti e dove per vent’anni abbiamo combattuto (spesso con una mano legata dietro alla schiena) vergognandoci di farlo e occultando quasi sempre all’opinione pubblica battaglie, successi ed eroismi.
Solo gli italiani in Afghanistan hanno ucciso migliaia di talebani vincendo molte battaglie e scaramucce di cui non è stato raccontato quasi mai nulla all’opinione pubblica. L’impatto di questa sconfitta sarà devastante per l’Occidente e i suoi interessi e galvanizzerà i jihadisti in tutto il mondo, inclusa l’Europa con effetti presumibilmente rilevanti anche sul fenomeno terroristico. Tutti gli Stati membri dell’alleanza hanno diffuso per anni la “madre di tutte le fake news”, raccontando che le forze da combattimento alleate vennero ritirate perché i militari afghani addestrati da noi erano così bravi da cavarsela da soli, oppure spacciando ora il negoziato degli Usa coi talebani come un accordo invece di una resa, o presentando una disfatta e una fuga con un ritiro e con l’impegno a continuare a sostenere il governo e l’esercito di Kabul.
La sconfitta verrà taciuta, la ritirata avverrà rapidamente avvolta per quanto possibile da un pudico silenzio, quasi a negare ci sia mai stata questa ennesima guerra dell’Occidente vinta da soldati coraggiosi sui campi di battaglia e perduta da politici pavidi dietro le scrivanie.