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GEORGIA E TEXAS

Usa, si lotta ancora per la regolarità del voto del 2020

Nelle elezioni del 2020, in una contea democratica della Georgia, 200 voti sono stati contati due volte. Una piccola irregolarità che, secondo gli oppositori, potrebbe essere solo la punta di un iceberg. La scoperta capita al momento sbagliato, nel pieno del dibattito infuocato sulle riforme elettorali negli Stati governati dai Repubblicani.

Esteri 17_07_2021
Brad Raffensberger

Nelle elezioni presidenziali americane del 2020, nello Stato della Georgia, contea di Fulton, 200 voti sono stati contati due volte. E’ l’esito di un’indagine chiesta dal gruppo di pressione Voter GA, che ritiene che le irregolarità siano state molte di più. Quei 200 voti non sono stati determinanti per il risultato finale, soprattutto considerando che la contea di Fulton è un feudo democratico e Biden ha vinto con una maggioranza schiacciante. Ma, in senso lato, la Georgia ha dato la vittoria a Joe Biden per appena 13mila voti, pari allo 0,23%. Con un risultato così risicato, ogni voto conta e gli elettori di minoranza (i Repubblicani) vogliono vederci chiaro. L’esito di questa indagine getta ulteriore benzina sul fuoco del dibattito sulle leggi elettorali, con una riforma molto combattuta e contestata in Texas e dieci Stati governati dai Repubblicani, fra cui la Georgia stessa, che hanno cambiato i regolamenti per il voto.

I 200 voti della contea di Fulton, appunto, sono poca cosa. Quelle schede sono riemerse, perché, sulla base della nuova legge elettorale georgiana, sono state pubblicate le loro immagini ad alta risoluzione. Ora, però, l’ombra che quelle 200 schede gettano sulla regolarità generale del voto, invece, è molto più grande, soprattutto considerando che si parla pur sempre dell’elezione più contestata della storia recente. “Se troviamo questo nella contea di Fulton, probabilmente troveremo la stessa cosa nel resto dello Stato – dichiara David Cross del gruppo Voter GA, che ha chiesto l’ultima revisione – Il fatto stesso che sia accaduto e che noi lo abbiamo trovato qui, vuol dire che probabilmente è accaduto altrove”,

Frode elettorale o errore? In ogni caso il segretario di Stato della Georgia, Brad Raffensperger, chiede la testa dei due principali funzionari elettorali della contea incriminata: Rick Barron e Ralph Jones “devono essere licenziati immediatamente (…) gli elettori meritano un servizio migliore”. La posizione di Raffensperger è difficile, sta per affrontare l’elezione primaria per essere candidato per la rielezione e si trova contro Trump e l’ala del partito fedele all’ex presidente. Raffensperger aveva difeso la regolarità del voto nel suo Stato, pur ordinando ben tre riconteggi. E si era per questo beccato una brutta lavata di capo, telefonica, dall’allora inquilino della Casa Bianca. La riapertura del caso elettorale e queste nuove prove di irregolarità, per il segretario di Stato georgiano, costituiscono una brutta scoperta. E contribuiscono a spiegare la sua reazione immediata e iraconda.

A spingere per ulteriori indagini è anche Fox News, il network conservatore e un talk show, in particolare, quello di Tucker Carlson. Il giornalista, con una sua indagine giornalistica (qui il transcript in italiano), suggerisce che in Georgia vi siano stati brogli massicci. Parte col chiedersi chi possa essere entrato illegalmente nel magazzino che contiene 140mila voti postali, lo scorso maggio. Mostra un video in cui una scrutatrice fotocopia schede elettorali più e più volte. Le foto e le testimonianze di una fonte anonima che mostra come, in uno dei riconteggi, una scrutatrice abbia ricontato voti postali apparentemente appena usciti da una stampante e senza una piega (quando i voti postali devono per forza essere piegati, per essere imbustati) e tanti altri dettagli che fanno sospettare brogli, sia nel conteggio che nei successivi riconteggi. I voti fraudolenti sarebbero nell’ordine delle migliaia. I fact checkers, a partire da quelli del Washington Post, sono già all’opera per smentire tutto. Le accuse di frodi elettorali citate da Carlson sarebbero “prive di fondamento”.

Questa vicenda coglierebbe un pubblico già lontano dalle emozioni dello scorso autunno e inverno, nei mesi caldi del post-voto. Ma finisce proprio nelle giornate più intense del dibattito sulle riforme elettorali. Il Texas, seguendo una decina di altri Stati governati dai Repubblicani, sta infatti riformando il suo sistema elettorale (i sistemi sono a livello statale, non esiste una legge elettorale nazionale, ndr). Il 13 luglio il Senato ha votato a maggioranza qualificata, 18 contro 4, la nuova normativa che limita fortemente il voto postale e quello anticipato, elimina la possibilità di votare nei drive-through e introduce nuovi controlli sui documenti di identità. Ora si attende la conferma alla Camera e c’è tempo per votare fino al 7 agosto, quando scadrà la sessione speciale.

I Democratici, per boicottare questa legge, vogliono far saltare il quorum necessario per il voto in Congresso. Non solo hanno abbandonato l’aula: hanno abbandonato proprio lo Stato e in 58 si sono recati a Washington. Per rafforzare la loro causa, accusano la riforma di “razzismo”, perché il voto in presenza e una maggior richiesta di controlli sui documenti sfavorirebbe il voto dei disabili, dei meno abbienti e delle minoranze, fasce elettorali su cui la sinistra punta molto. I Democratici aventiniani sono andati nella capitale degli Usa per sfuggire al regolamento che, in caso di votazione, obbliga i senatori e i deputati locali ad essere presenti in aula (pena l’arresto), ma che evidentemente non è sufficientemente chiara sul caso dei parlamentari non presenti sul suolo dello Stato. Il governatore Abbott, comunque, ha minacciato di arrestarli al loro ritorno.

I Democratici texani, comunque, sono andati a Washington anche per perorare la causa delle due leggi elettorali nazionali proposte dalla maggioranza democratica in Congresso. Si tratta del “For the People Act” e del “John Lewis Voting Rights Advancement Act”, entrambi passati alla Camera, ma bloccati in Senato (diviso a metà) a causa dell’ostruzionismo opposto dai Repubblicani, che richiederebbe un voto a maggioranza 60-40, numeri irraggiungibili in un’aula divisa in un 50-50. Queste leggi imporrebbero agli Stati regolamenti elettorali più “inclusivi”. Ma anche più corretti?