Ucraina, la prospettiva è una sconfitta per tutti
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La visita a sorpresa di Biden a Kiev non è solo espressione di solidarietà, ma di un coinvolgimento di Usa e Nato in un conflitto che ha lo scopo di sconfiggere la Russia e Putin. Da nessuna parte si registra un'apertura al dialogo. L'unica alternativa a una disastrosa escalation, oggi appare soltanto un congelamento della situazione che creerebbe una nuova cortina di ferro in Europa.
La visita a sorpresa a Kiev del presidente americano Joe Biden, alla vigilia del primo anniversario dell’invasione russa dell’Ucraina (24 febbraio), segna un passaggio molto importante di questa guerra, una iniezione di fiducia per l’Ucraina che resiste all’esercito russo. La “passeggiata” per le strade di Kiev insieme al presidente ucraino Volodymyr Zelensky, è stata certamente un’immagine forte, il cui valore è stato efficacemente sintetizzato dal capo della Chiesa greco-cattolica ucraina, Sua Beatitudine Sviatoslav Shevchuk: «L’esercito russo ci ha letteralmente condannato a morte ma questa solidarietà mostrata nel contesto di queste visite ci dà la speranza che questa condanna non venga eseguita».
C’è però molto di più di una semplice solidarietà nei confronti della vittima di un aggressore: con la promessa di un altro pacchetto di armi per un valore di 500 milioni di dollari e nuove sanzioni contro Mosca, Biden ha messo in chiaro – per chi avesse ancora dei dubbi – che gli Stati Uniti e più in generale l’Occidente sono parte della guerra contro la Russia: saremo al fianco dell’Ucraina «per tutto il tempo che sarà necessario», ha detto Biden, facendo eco al segretario di Stato Antony Blinken che, alla Conferenza di Monaco di Baviera sulla sicurezza, sabato, aveva usato la stessa espressione riferendosi al sostegno militare fianco a fianco con l’Ucraina: «for as long as it takes», per tutto il tempo che sarà necessario.
Ancora più esplicito, sempre a Monaco, è stato il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg: «C’è preoccupazione che i nostri sforzi per difendere l’Ucraina possano portare al pericolo di una escalation. Non ci sono opzioni prive di rischi. Ma l’unico pericolo qui è la vittoria della Russia e di Putin».
Siamo dunque ben oltre l’aiutare l’Ucraina a difendersi, c’è già in conto una possibile escalation se non sarà possibile sconfiggere Putin in altro modo. Capiamo tutti a cosa una escalation potrebbe portare. E se fosse vero l’allarme lanciato da Blinken sull’intenzione della Cina di fornire armi e munizioni alla Russia, la situazione potrebbe velocemente volgere al peggio.
Dunque, da tutte le parti si sentono soltanto parole di guerra, tutti sono ormai preparati a un lungo conflitto, se qualcuno cita la pace è solo per dire che ci sarà soltanto con la sconfitta del nemico. Vale a dire che la possibilità di un negoziato, o almeno di favorire una mediazione, non è neanche presa in considerazione. «Se almeno ci fosse un desiderio di pace – ha detto l’arcivescovo cattolico di Mosca, monsignor Paolo Pezzi, in una intervista all’agenzia Sir -, forse riusciremmo a fare qualche passo in direzione della pace». È lo stesso quadro sconsolante che aveva fatto alla Bussola un mese e mezzo fa, affermando che non vedeva alcun segnale di disponibilità al dialogo. Eppure al dialogo non c’è alternativa se si vuole evitare il disastro: «Penso che in questo momento quello che occorre fare, sia non chiudere mai le porte, non chiudere mai al dialogo. In questo senso penso che rifiutare le possibilità di incontro e di dialogo sarebbe sbagliato. Questo non significa che bisogna per forza sposare le posizioni dell’altro o tacere. Però mi sembra che a priori rifiutare l’incontro, a qualsiasi livello, non fa che accrescere le distanze».
È quello che però sta avvenendo: da Mosca, Kiev, Washington, Bruxelles, Pechino nessun tentativo di dialogo. In tutti c’è l’illusione o di vincere la guerra in qualche modo o comunque di trarre vantaggi – economici, politici o militari – dal prolungarsi del conflitto: a spese - per ora - della popolazione ucraina e dei soldati russi e ucraini che ci rimettono la vita.
Al punto che anche la proposta “minimalista” almeno di un cessate-il-fuoco appare un miraggio. L’ha fatta il giornalista Domenico Quirico rievocando il caso della guerra di Corea, che tra il 1950 e il 1953 aveva portato il mondo sull’orlo di una guerra nucleare, visto che dietro le due Coree c’erano allora Stati Uniti da una parte e Unione Sovietica e Cina dall’altra. Il cessate il fuoco del 1953 congelò il conflitto con la divisione tra Nord e Sud all’altezza del 38° parallelo, e da allora la situazione non è cambiata: non si tratta di vera pace, tanto è vero che la Corea del Nord continua ad essere una minaccia militare nell’Asia-Pacifico, ma almeno si è fermato il massacro.
«Quello che bisogna realizzare – dice Quirico - è l’interruzione, per una settimana, delle operazioni sul terreno, bloccare le rispettive posizioni sul campo di battaglia. Ci sono le condizioni: i due avversari sono esausti, l’Occidente che tiene in piedi la guerra inizia, oltre il gesticolare propagandista, ad interrogarsi sulla mostruosa usura economica e militare e sui rischi di sviluppi atomici. Bisogna impedire che i due eserciti si asserraglino nelle trincee trasformando il conflitto in un lento macello senza fine». Una settimana può sembrare poco, ma almeno c’è la possibilità di aprire un dialogo e magari il cessate-il-fuoco si può estendere, e ancora, e ancora.
La proposta è certo di buon senso e suggestiva, ma al momento nessuno sembra disposto neanche a questa piccola concessione. Men che meno in occasione del primo anniversario. Però la sensazione è che a un certo punto l’unica alternativa a una disastrosa escalation, potrà essere proprio questa: un cessate il fuoco prolungato con congelamento indefinito della situazione, che creerà una nuova cortina di ferro in Europa, una nuova Guerra Fredda. Cioè una nuova sconfitta per tutti, escluso forse chi sulla divisione tra Europa e Russia ci conta.