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ACCORDI DI PARIGI

Trump lancia la sfida del clima e svela l'inganno

Con una lettera all'ONU, il presidente americano ha avviato l'iter per l'uscita dagli Accordi di Parigi sul clima che sarà definitiva il 4 novembre 2020, il giorno dopo le elezioni presidenziali USA. Una scelta coraggiosa, che va contro la cultura dominante, e che svela l'assurdità di obiettivi e condizioni degli Accordi sul clima. E negli Usa scoppia la "guerra del clima": un gruppo di politici locali e aziende si ribellano a Trump e vogliono essere riconosciuti come delegazione ufficiale negli incontri internazionali; dall'altra parte è stata depositata una denuncia contro l'ex presidente Obama perché la ratifica degli Accordi di Parigi sarebbe stata illegale.
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Creato 06_11_2019
Il presidente USA Donald Trump

Il presidente americano Donald Trump fa sul serio: lo aveva promesso in campagna elettorale, aveva confermato l’impegno dopo la sua elezione; e lunedì, al primo giorno utile consentito dalle condizioni previste, con una lettera di notifica alle Nazioni Unite ha ufficialmente avviato l’iter per l’uscita degli Stati Uniti dagli Accordi di Parigi sul clima. Tali accordi infatti, prevedono la possibilità per i singoli paesi di recedere soltanto dopo tre anni dalla loro entrata in vigore. Il che scadeva appunto il 4 novembre. E ora, sempre gli accordi di Parigi, prevedono che l’iter per l’uscita duri un anno esatto; vale a dire che gli Stati Uniti saranno ufficialmente fuori dagli accordi di Parigi il 4 novembre 2020, proprio il giorno dopo le elezioni presidenziali in cui Trump dovrà affrontare un non ancora definito sfidante Democratico.

Insomma il tema dei cambiamenti climatici sarà l’argomento principe della campagna elettorale. Del resto era già stato importante nelle passate presidenziali, svoltesi pochi mesi dopo la ratifica degli Accordi di Parigi da parte dell’allora presidente Barack Obama. Trump allora si schierò decisamente contro questo accordo, oggi firmato da 187 paesi (oltre agli Stati Uniti), con le stesse motivazioni che ieri il segretario di Stato Mike Pompeo ha riconfermato: «L’accordo impone un ingiusto fardello economico» sugli Stati Uniti, valutato in perdite economiche pari a 3 trilioni di dollari e alla perdita di 6.5 milioni di posti di lavoro (cifre ovviamente contestate dai sostenitori degli Accordi di Parigi).

Invece gli Stati Uniti, ha detto ancora Pompeo, seguiranno «un modello realistico e pragmatico» usando «tutte le fonti energetiche e le tecnologie in modo pulito ed efficiente». In pratica l’amministrazione Trump ripropone nella sostanza la stessa politica già tracciata dall’amministrazione di George Bush jr, allorché il Senato bocciò l’adesione degli Stati Uniti al Protocollo di Kyoto del 1997, firmato dal suo predecessore Bill Clinton.

La coraggiosa decisione di Trump, che ha resistito a fortissime pressioni internazionali e interne (persino nel suo entourage), ha il merito di aprire una crepa nel muro del consenso internazionale che mostra tutta la fragilità di un accordo molto ideologico e politico e quasi per nulla scientifico. Come si ricorderà, gli Accordi di Parigi sono un misto tra obiettivi assai generici - con «l’aspirazione» a contenere l’aumento della temperatura globale entro il 2100 al di sotto dei 2°C rispetto all’era pre-industriale -: riduzione delle emissioni di CO2 su base volontaria e neutralità delle emissioni entro il 2100, trasferimento di ingenti aiuti finanziari dai paesi industrializzati ai paesi in via di sviluppo, tra cui Cina e India (clicca qui e qui).

Il ragionamento di Trump è molto semplice: sulla base di assunti scientifici ancora tutti da dimostrare (la causa antropica del riscaldamento globale), gli Stati Uniti dovrebbero riconvertire tutto il proprio sistema industriale ed energetico in tempi rapidissimi (con costi facilmente immaginabili); e nello stesso tempo sborsare fior di miliardi di dollari da versare nelle casse dei paesi in via di sviluppo, comprese Cina e India che già sono le principali fonti di emissione di CO2 e che in base agli accordi possono aumentare ulteriormente le loro emissioni. Solo un cretino sarebbe d’accordo.
E non bastano certo le previsioni di mirabolanti creazioni di posti di lavoro “verdi” a convincere di mettersi sulla strada di Parigi: i guadagni sono incerti ed eventualmente molto in là nel tempo; le perdite invece sono certe, notevoli e immediate (la lezione della California dovrebbe pur insegnare qualcosa).

Se noi consideriamo che già oggi la Cina da sola totalizza una quantità di emissioni superiore a Stati Uniti e Unione Europea messe insieme, e che continuerà ad aumentarle almeno fino al 2030, si capisce l’assurdità alla base degli Accordi di Parigi; tenendo anche conto che – sempre seguendo la teoria del Riscaldamento globale antropico – nel rapporto con l’aumento delle temperature sono le emissioni globali quelle che contano. Ci si può dunque aspettare che al di là delle dichiarazioni ufficiali – tutte di grave censura per l’atto di Trump – il fronte dei paesi convinti di dover agire in tempi rapidissimi pena la catastrofe universale cominci a sgretolarsi. Non ultimo perché, con l’uscita di scena degli Stati Uniti, viene meno la mucca più grande da mungere ed è escluso che da una parte si trovino paesi disposti a sostituirli e dall’altra paesi disposti a rinunciare ai soldi promessi.

In compenso la “guerra del clima” divampa anche all’interno degli Stati Uniti e diventerà certamente il tema che condizionerà pesantemente le prossime elezioni presidenziali. Basti pensare che centinaia di governi locali e aziende hanno già sottoscritto l’impegno a tagliare le proprie emissioni di CO2 riunendosi in un movimento chiamato “We are still in” (“Noi siamo ancora dentro”, gli Accordi di Parigi ovviamente), con lo scopo di mostrare al mondo che gli americani non sono con il loro presidente. Tra i promotori c’è anche il filantropo miliardario Michael Bloomberg, ex sindaco di New York. Sempre lui  lunedì ha annunciato la formazione di “US Climate Action Center”, una delegazione di sindaci, governatori, funzionari statali e leader ambientalisti, che vorrebbe partecipare alla prossima Conferenza sul Clima che si terrà a Madrid in dicembre, prendendo il posto della delegazione ufficiale del governo Usa.

Ma la lotta non è a senso unico. Nello stesso tempo, infatti, è stata presentata una denuncia contro l’ex presidente Obama, per aver aderito illegalmente agli Accordi di Parigi. La denuncia, presentata dall’organizzazione non profit Government Accountability & Oversight (Gao) per conto di Energy Policy Advocates, cita una nota legale con cui l’amministrazione Obama ha giustificato la ratifica degli Accordi di Parigi saltando il voto in Senato. Secondo Obama infatti il passaggio in Senato non era richiesto in quanto «gli obiettivi non sono legalmente vincolanti e non hanno scadenze». Ma la legge, sostiene il GAO, prevede l’obbligo del voto in Senato per qualsiasi accordo internazionale «che preveda un obiettivo e delle scadenze», non importa se «legalmente vincolanti». Con gli Accordi di Parigi Obama si era impegnato a ridurre entro il 2025 le emissioni di CO2 del 28% rispetto al 2005, il che renderebbe illegale la ratifica degli Accordi da parte dell’amministrazione Obama.