Social network: Zuckerberg rivela che siamo a un punto di rottura
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Mark Zuckerberg ha confessato, alla Commissione giustizia della Camera, che ha rimosso contenuti su Facebook su pressione del governo. Questa è censura, una notizia che non può essere sottovalutata.
- Jordan Peterson va in rieducazione di Fabrizio Cannone
La lettera inviata da Mark Zuckerberg alla Commissione giustizia della Camera dei Rappresentanti statunitense, in cui egli ammette ufficialmente di aver ceduto a richieste di censura dei contenuti postati su Facebook da parte di agenzie federali e poi dell'amministrazione Biden tra 2020 e 2021, rappresenta una svolta epocale nel dibattito sulla libertà di espressione in Occidente, in relazione ai social media e non solo. Ancor più in relazione all'arresto del fondatore e CEO di Telegram, Pavel Durov, avvenuto in Francia pochi giorni fa.
Il fatto che i social media siano da molti anni al centro di accuse, campagne di denigrazione, tentativi di controllo e spinte censorie anche nei paesi liberaldemocratici è ben noto. Dalla loro nascita essi hanno immesso nella dialettica sociale e politica alcuni elementi deflagranti. Come potentissimi e pervasivi canali di un flusso di messaggi e relazioni potenzialmente inesauribile, hanno letteralmente scardinato il sistema organizzato dei media ufficiali, creando le condizioni da un lato per l'emergere e l'organizzarsi di correnti di opinione spontanee, non controllate dall'alto, dall'altro per capillari operazioni di comunicazione propagandistica dall'alto e di accumulo di dati personali privati da parte dei fondatori e gestori delle piattaforme, che si sono visti investiti di un potere enorme, inusitato e imprevisto.
In particolare, poi, i social media sono diventati il bersaglio di feroci accuse e polemiche quando è emerso chiaramente che essi costituivano il canale principale per la diffusione delle idee delle nuove destre "populiste" e "sovraniste" occidentali nate dopo la grande crisi del 2008, radicalmente critiche di molti aspetti della globalizzazione, e largamente estranee all'establishment politico, economico-finanziario, intellettuale egemonizzato dal globalismo progressista "politicamente corretto".
Da qui la crescente pressione di quell'establisment per ricondurre questi nuovi, potenti poli della comunicazione sotto il proprio controllo, o, in caso contrario, la crescente tendenza a delegittimarli e criminalizzarli, sostenendo che essi fossero mezzi di diffusione di odio, violenza, razzismo, e veicolassero strutturalmente disinformazione e "misinformazione" attraverso "fake news" pericolose che inquinavano il dibattito civile.
Il tornante decisivo attraverso il quale questa visione si è consolidata è stato il 2016, con la vittoria della Brexit e l'elezione a sorpresa di Donald Trump alla Casa Bianca contro Hillary Clinton. A questi due segni inequivocabili di incrinatura dei consensi da parte del “blocco” delle élites formatesi dopo la fine della guerra fredda, e alla crescita delle destre sovraniste, quelle élites hanno decretato all'unisono che tali fenomeni politici non rappresentavano uno tra i fisiologici esiti del dibattito democratico, ma al contrario il risultato del fatto che i social media avevano dato spazio alle notizie false e alle manipolazioni lanciate da orde di cospiratori sovversivi, magari al servizio di potenze ostili, come la Russia di Putin; che, dopo la prima crisi ucraina del 2014, si era rapidamente trasformata, per la “narrazione” mainstream, nel perfetto “cattivo” a cui addebitare ogni oscura congiura destabilizzante.
Proprio la vittoria di Trump venne indicata, dai Democratici statunitensi, come frutto di un pactum sceleris tra il tycoon e Putin, e tale accusa diede origine addirittura a un'indagine dell'Fbi e della magistratura, che si sarebbe rivelata poi (come attestato definitivamente dal rapporto del procuratore John Durham nel 2023) una montatura mossa dalla volontà degli apparati di colpire l'allora presidente.
Da allora, la pressione per riportare i social sotto il controllo del potere politico, e in particolare di impedire che essi potessero bilanciare il sottodimensionamento strutturale operato dai media mainstream verso le forze politiche di destra, è andata crescendo, e facendosi più esplicita e minacciosa.
Nella lettera sopra citata Zuckerberg ha ammesso inequivocabilmente che nell'ottobre 2020, durante la campagna elettorale presidenziale in cui si scontravano Trump e Joe Biden, l'Fbi chiese di censurare la diffusione di un articolo del New York Post che dettagliava il coinvolgimento di Biden nei rapporti d'affari loschi del figlio Hunter con la azienda ucraina Burisma perché, sosteneva l'agenzia, si trattava di un'operazione di disinformazione russa, e Facebook accettò, esercitando così un inquinamento enorme del dibattito elettorale. Così come, nel 2021, su pressante richiesta della amministrazione Biden, nel frattempo entrata in carica, la piattaforma censurò un numero enorme di contenuti che esprimevano critiche, dubbi e persino satira sulla versione governativa ufficiale in merito all'epidemia di Covid-19 e alle relative misure emergenziali.
Non si tratta certo di notizie sconosciute o sorprendenti, ma solo della conferma di fatti già noti per varie vie. D'altra parte, pressioni censorie analoghe operate dagli apparati governativi americani nei confronti di Twitter, allora di proprietà di Jack Dorsey, e prontamente eseguite, erano state già rivelate, con tutta la documentazione, da Elon Musk nel 2022 dopo che ebbe acquisito la piattaforma, nei celebri Twitter Files curati da Matt Taibbi. Ma è importante il fatto che Zuckerberg ammetta oggi che cedere a quelle pressioni sia stato un atto sbagliato, e un tradimento della funzione neutrale che la piattaforma avrebbe dovuto assumere nella dialettica civile e politica. Così come, sul lato opposto, è importante, in negativo, il fatto che l'amministrazione Biden rivendichi ancora il comportamento tenuto in quel contesto, giustificandolo con l'esigenza di promuovere, in una situazione di grave emergenza, “azioni responsabili per proteggere la salute e la sicurezza pubblica”.
E proprio il concetto di emergenza - usato incessantemente negli ultimi anni per il Covid, poi per la presunta “crisi climatica”, poi per la guerra russo-ucraina, ma applicabile praticamente a qualsiasi campo su cui si promuovano campagne allarmistiche - rappresenta la leva principale che il blocco di potere occidentale, prevalentemente di sinistra, invoca per invocare una sottomissione di tutti i mezzi di comunicazione, e soprattutto dei social, al ruolo di ripetitori passivi di una narrazione sostanzialmente unica imposta dall'alto. Una logica che informa di sé il Digital Service Act, regolamento dei servizi digitali approvato dall'Unione europea nel 2022 ed entrato in vigore quest'anno, che impone alle stesse piattaforme la “moderazione” (cioè la censura) dei contenuti su tutti i temi “sensibili”. E che oggi viene adoperata dalla Francia per accusare, con una logica surreale, il CEO di Telegram Pavel Durov di complicità diretta con le azioni criminose compiute attraverso la sua piattaforma (terrorismo, pedopornografia, spaccio di droghe) per cercare di scardinare definitivamente le garanzie di privacy assicurate dalla piattaforma (anche probabilmente per scopi militari e di politica estera).
Siamo giunti, insomma, a uno snodo decisivo nella storia dei social media, ma più in generale del pluralismo occidentale. In assenza di una consapevole e decisa mobilitazione civile e politica trasversale sul tema, anche nelle liberaldemocrazie i media si avvieranno inevitabilmente verso una deriva “cinese”, seguendo la trasformazione degli ordinamenti pluralisti in regimi emergenziali della sorveglianza.