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MEDIO ORIENTE

Il secondo Natale in Siria con gli jihadisti al potere

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Persino gli alberi di Natale sono oggetto di attacchi e vandalismi nella Siria controllata dagli jihadisti. Fra calma apparente, violenza settaria e persecuzioni, un secondo Natale del dopo-Assad celebrato all'insegna del terrore.

Libertà religiosa 27_12_2025
Albero di Natale custodito da milizie armate (foto di Elisa Gestri)

«Cosa le devo dire delle Feste natalizie? Sono ormai lontani i tempi in cui il Natale si festeggiava normalmente, senza problemi», così ci dice al telefono A., il nostro corrispondente dalla Siria. «Festeggiare, fare l’albero, è diventato un evento. Prima era la cosa più normale». Il secondo Natale dalla presa del potere di Hayat Tahrir al Sham in Siria non è stato un Natale felice. I recenti festeggiamenti per il primo anniversario della cacciata di Assad non sono riusciti a nascondere la realtà dei fatti: il nuovo governo jihadista guidato da Ahmed al Sharaa, già al Jolani, fatica a mantenere il controllo del Paese e a limitare le ingerenze straniere su di esso; inoltre non può - o più probabilmente non vuole - impedire a frange di suoi stessi affiliati di commettere continui atti delittuosi ai danni della popolazione civile, in particolare delle minoranze etno-religiose. I crimini in odio al Natale dei cristiani che già l’anno passato hanno funestato le Feste si sono ripetuti anche quest’anno con rinnovata violenza; forte della legittimazione internazionale di cui sembra godere al Sharaa, la formazione jihadista al potere si muove nella completa impunità.

A Damasco ignoti hanno asportato la statua posta nei pressi della porta romana di Bab Kisan a ricordo della caduta di San Paolo da cavallo, che secondo la tradizione ha avuto luogo poco lontano. Un’altra tradizione di diverso genere, inaugurata l’anno passato, si è ripresentata puntuale anche quest’anno: centinaia di alberi di Natale sono stati divelti o dati alle fiamme in tutto il Paese. In alcuni casi il governo, impegnato a dare di sé un'immagine di tolleranza nei confronti dei cristiani, ha inviato guardie armate a proteggere gli alberi dagli atti di vandalismo. In alcuni altri, le “guardie” stesse hanno intonato canti denigratori mentre gli alberi venivano abbattuti. Dal canto loro le comunità cristiane di Suwayda, sud est del Paese, hanno deciso congiuntamente di limitare i festeggiamenti natalizi per rispetto alle vittime civili uccise dai miliziani governativi nel luglio scorso.

Il distretto di Suwayda, prevalentemente druso e cristiano, già oggetto delle attenzioni omicidiarie di HTS, non trova pace: il giorno di Natale l’esercito giordano, “in collaborazione con partner regionali”, ha lanciato inopinatamente sulla regione una serie di attacchi aerei per smantellare il fiorente contrabbando di droga, segnatamente captagon - un’anfetamina molto diffusa in medio oriente - oltre confine. Chi siano i partner regionali della Giordania nell’operazione non è difficile immaginarlo, se si pensa agli appetiti dello Stato Ebraico sul territorio.

Nei giorni precedenti al Natale, una dettagliatissima inchiesta della Reuters ha documentato come le terribili prigioni di Assad siano correntemente utilizzate dagli uomini del nuovo governo per perpetrarvi le stesse torture ed esecuzioni sommarie del vecchio regime. In particolare, migliaia di appartenenti alle minoranze religiose, in primis alawiti, sono stati torturati e uccisi dagli uomini di HTS e loro fiancheggiatori negli edifici carcerari già predisposti da Assad per i peggiori abusi che si possano immaginare.

La caccia al kuffar, l’infedele secondo l’ideologia jihadista,  non ha trovato riposo nemmeno nei giorni delle festività natalizie: si sono registrati omicidi e rapimenti di civili alawiti, in particolare giovani, ma anche anziani e disabili, nelle campagne di Latakia, Jable, Homs e Hama. La vigilia di Natale lo sheikh Ghazal Ghazal, massima autorità religiosa alawita, ha diramato un videoappello in cui ha chiesto alle “autorità de facto del Paese, pienamente e direttamente  responsabili” dei fatti di sangue, “l’immediata cessazione  degli atti criminali contro i civili” e alla comunità internazionale e alle organizzazioni umanitarie di prendere atto della realtà delle cose. Gli alawiti si avvarranno del diritto all’autodifesa se le atrocità perpetrate contro la loro comunità non cesseranno, ha dichiarato Ghazal.

Frattanto, la visita in Siria del ministro degli esteri turco Hakan Fidan ha portato alla luce una situazione che si trascina in sordina da mesi: gli scontri tra le truppe governative e le milizie curde del Syrian Democratic Forces (SDF), che dal 2015 controllano il nord-est del Paese. Teatro della violenza esplosa in occasione della visita del ministro turco è stata la città di Aleppo, dove almeno due persone sono rimaste uccise negli scontri ed intere famiglie hanno abbandonato le loro abitazioni fuggendo dalle violenze in corso.

Oggetto del contendere è lo scioglimento di SDF entro la fine dell’anno e l’integrazione dei suoi membri nell’esercito siriano, come da accordi presi tra al Sharaa e i vertici di SDF nel marzo scorso. La visita di Fidan - portavoce degli interessi della Turchia di Erdogan - aveva lo scopo di “incoraggiare” i miliziani curdi, evidentemente riluttanti,  a confluire nell’esercito di al Sharaa. Il nord est della Siria è una spina nel fianco per il nuovo presidente della Siria che, lo ricordiamo, ha deciso di escludere le province di Hasaka e Raqqa, controllate da SDF, dalle “libere elezioni parlamentari” dell’ottobre scorso.

Mentre scriviamo, giunge la notizia che nel giorno di Santo Stefano un attentato suicida ha devastato la moschea alawita Imam Ali nel quartiere di Wadi al Dhahab, a Homs, durante la preghiera del venerdì. Il bilancio provvisorio è di almeno dodici morti e un numero imprecisato di feriti. L’operazione ricorda nel modus operandi l’attentato del 20 giugno scorso alla chiesa ortodossa di Dwela, Damasco, costato la vita a quasi trenta fedeli che assistevano alla Santa Messa.