Siria, a un anno dalla caduta di Assad c'è poco da festeggiare
Jihadismo dilagante e nessuna democrazia. A un anno dalla caduta del regime di Assad, in Siria non si sta affatto meglio, soprattutto se si è membri delle minoranze religiose. E gli oppositori del nuovo regime di Al Sharaa sono braccati anche in Libano, dove le aree sunnite più estremiste sono legate al potere di Damasco.
Domenica 8 dicembre 2024 la formazione islamista Hayat Tahrir Al Sham con a capo Abu Mohamed al Jolani entrò trionfalmente a Damasco, mentre il dittatore Bashar al Assad lasciava la Siria a bordo di un aereo diretto a Mosca.
Mentre scriviamo, sono in corso in tutta la Siria grandi celebrazioni del primo anniversario della caduta di Assad organizzate dal “nuovo governo” siriano. In realtà, leggendo il regime change attraverso la lente del rispetto dei diritti umani c'è poco da festeggiare: in quest’anno il Paese è stato teatro di migliaia di esecuzioni sommarie ai danni di supposti “membri del regime di Assad”, di ondate di omicidi, stupri, violenze, rapimenti e brutalità di ogni tipo nei confronti delle minoranze religiose (alawiti, sciiti, drusi e cristiani), è stata introdotta la shaaria nella Costituzione, allestite finte elezioni democratiche e istruiti finti processi agli autori delle atrocità di cui sopra.
I cambiamenti occorsi durante questo anno in Siria sono ormai sotto gli occhi del mondo intero, a partire dal nome del leader di HTS, tornato all’anagrafico Ahmed al Sharaa, e al suo abbigliamento, passato repentinamente dalla mimetica del miliziano al doppiopetto di Presidente autonominato della Siria. Altrettanto repentinamente i leader occidentali hanno dato fiducia al “nuovo governo” formato da uomini rimasti fedeli alle vecchie abitudini dei tempi di al Qaeda - per citare solo l’esempio più clamoroso, Donald Trump ha ricevuto a Washington l’ex ricercato dall’antiterrorismo USA al Sharaa (con taglia di 10 milioni di dollari sulla testa), a cui è stato riservato anche l’onore di parlare davanti all’Assemblea Generale dell’ONU.
Ma si sa, «gli accordi economici e militari e le partnership strategiche pesano di più dei diritti umani», come ha affermato in una recente intervista Metin Rhawi, uomo politico e attivista svedese siro-cattolico che si occupa delle minoranze religiose perseguitate in Medio Oriente. Alla domanda sul perché l’Occidente taccia davanti alle palesi violazioni dei diritti umani perpetrate in Siria e altrove dall’estremismo islamico, Rhawi ha risposto che «le potenze occidentali hanno timore di parlare apertamente di estremismo religioso; non vogliono offendere partner di cui hanno bisogno per interessi economici e geopolitici». A proposito in particolare dei cristiani, «Le comunità cristiane in Siria sono al collasso», ha dichiarato. Città come Qamishli, Hassake, Homs e Aleppo, dove i cristiani vivono da più di 2000 anni, si stanno svuotando.
Dal canto suo, la comunità alawita siriana, colpevole di annoverare tra i suoi membri la famiglia Assad, ha vissuto un anno di terribili e ingiustificate sofferenze. La guida spirituale alawita Sheikh Gazal Gazal ha invitato le comunità presenti nel Paese a uno sciopero generale di cinque giorni, dall’8 al 12 dicembre, per non essere costrette ad aderire forzatamente ai festeggiamenti preparati dal governo. «Lo scorso 8 dicembre ci aspettavamo che quel giorno sarebbe caduta la tirannia; in realtà è caduto ciò che era rimasto in piedi del nostro Paese» ha dichiarato in un video-appello. «Ora vogliono costringerci a festeggiare la sostituzione della tirannia con una tirannia più grossa. … Ci hanno arrestato, ucciso, massacrato, rapito e bruciato e ora stanno minacciando la nostra stessa sussistenza attraverso licenziamenti, trasferimenti, vessazioni e intimidazioni per privarci dei mezzi di sostentamento e costringerci a partecipare a celebrazioni realizzate sul nostro stesso sangue, sul nostro dolore e sulla nostra sofferenza, con palese disprezzo delle nostre ferite». Il mondo sappia, ha concluso Gazal, che “ogni violazione contro gli alawiti è una violazione contro tutti, e una pugnalata al cuore collettivo” della Siria.
Frattanto, non si fermano violenze e fatti di sangue: le nostre fonti ci segnalano che il 4 dicembre una mamma di tre figli è stata rapita alla stazione degli autobus di Homs, appena arrivata da Tartous; il 7 un giovane si è dato alle fiamme ad Aleppo dopo che una pattuglia delle “Forze dell’ordine” lo ha prelevato, tentando di arrestarlo.
Se quest’ultimo anno ci ha tristemente abituati a centinaia, se non a migliaia, di episodi simili in Siria, il dato preoccupante emerso in questi giorni di “celebrazioni” è l’espansione, del resto prevedibile, del fenomeno dell’estremismo islamico dal Paese a quelli circonvicini. Ci troviamo a Tripoli, capoluogo del nord del Libano, dove sono in corso massicci festeggiamenti per la “vittoria della rivoluzione siriana”. I salafiti libanesi, concentrati soprattutto nella città sunnita di Tripoli, intrattengono legami più o meno coperti con i “confratelli” siriani almeno dai tempi della guerra civile in Siria. Dalla caduta di Assad i jihadisti libanesi hanno cominciato a mostrare apertamente la loro solidarietà ad al Jolani / al Sharaa - c’è chi ha imbracciato le armi e dal Libano ha raggiunto i miliziani di HTS. Raggiungiamo un caffè isolato dal chiasso delle strade per incontrare B., trentacinquenne alawita siriano arrivato in città nei mesi scorsi, in fuga da Tartous, sulla costa siriana. Parlando con noi, si riferisce al Presidente della Siria come ad al Jolani; evidentemente, per lui l’abbandono del nome di battaglia del leader di HTS non ha nessun significato. Gli chiediamo come sta, e se si sente finalmente libero dalle persecuzioni che infuriano in Siria contro la sua comunità.
«Non si può vivere in pace con i jihadisti, né in Siria né qui nel Libano» risponde. «Nemmeno i miei amici che si sono rifugiati in Europa sono tranquilli: ricevono minacce di morte dagli estremisti islamici in Francia, in Olanda… non ci lasciano in pace da nessuna parte, e non possiamo tornare in Siria: ovunque è un inferno.»
Dunque non si sente un po’ più al sicuro in Libano rispetto alla Siria? «No, non mi sento al sicuro nemmeno qui. Quando gli estremisti islamici si imbattono in qualcuno di noi alawiti cominciano a tormentarlo; non è possibile che ci lascino in pace, anche perché si vantano tra loro di aver ‘stanato un alawita‘. Ci riconoscono dai nostri nomi e cognomi, oppure dal dialetto, quando ci sentono parlare»
Da quello che ha potuto vedere, crede che il fenomeno dell’estremismo islamico in Libano si fermerà o continuerà la sua espansione? «Credo che non si fermerà qui, perché ogni volta che al Jolani ottiene un riconoscimento da parte di un Paese straniero o della comunità internazionale gli estremisti lo leggono come un passo verso l’islamizzazione del mondo, e acquistano sempre più fiducia nella vittoria finale della jihad».
Dietro la conquista della Siria da parte di al Sharaa e dei suoi uomini ci sono potenze straniere che l’hanno permessa e supportata - ad esempio Israele, che ha grandi ambizioni su Damasco. Non crede che, in caso il fenomeno estremista si allarghi troppo sulla regione, questi stessi Paesi penseranno a ridimensionarlo? «Io credo che quanti hanno dato il potere ad al Jolani potranno in qualche modo addomesticarlo, ma sarà difficile addomesticare queste masse di fanatici religiosi».
Lasciamo B. pensando alle parole di Metin Rhawi in un passaggio dell’intervista citata nell’apertura di questo articolo: «Se l’Europa continua su questa strada (di collaborazione con regimi estremisti, nda), gli europei seguiranno la stessa sorte: non necessariamente attraverso la violenza, ma attraverso la lenta erosione dei valori democratici di libertà e pluralismo. Quando un Paese supporta forze che distruggono la democrazia all’estero, alla fine queste stesse forze influenzeranno la democrazia al suo interno».


