Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
San Giovanni da Triora a cura di Ermes Dovico
80° anniversario

Široki Brijeg, il martirio dei francescani che plasmarono l’Erzegovina

Ascolta la versione audio dell'articolo

Il 7 febbraio 1945, undici francescani del convento di Široki Brijeg furono trucidati dai partigiani titini. Alla fine della Seconda Guerra Mondiale, nella sola Provincia dell’Erzegovina, si contavano 66 francescani uccisi. Eliminandoli, i comunisti volevano anche distruggere la cultura del popolo, plasmata proprio a Široki Brijeg.

Ecclesia 07_02_2025 English Español
La chiesa di Široki Brijeg subito dopo la guerra

Široki Brijeg, Mostar-Čekrk, Mostarski Gradac, Ljubuški, Zagvozd, Kočerin, Izbično, Čitluk, Čapljina, Macelj. Queste sono solo alcune delle stazioni della dolorosissima Via Crucis percorsa dai francescani della Provincia dell’Erzegovina esattamente ottant’anni fa, a partire dal febbraio 1945.

Undici frati del convento francescano di Široki Brijeg furono trucidati da soldati appartenenti alla famigerata Undicesima brigata dalmata dell’esercito titino il 7 febbraio 1945; il giorno dopo furono catturati altri nove frati, che insieme a un centinaio di civili si erano rifugiati presso la centrale idroelettrica francescana sul fiume Lištica, situata non lontano dal convento. A questi frati non toccò una sorte migliore dei loro confratelli: furono trasferiti in direzione Dalmazia e trucidati in località sconosciute.

Già la notte tra il 6 e il 7 febbraio, a Mostarski Gradac, erano stati giustiziati senza alcun apparente motivo altri cinque frati, professori e studenti del seminario francescano che si erano rifugiati in quella parrocchia montana per proseguire in qualche modo le lezioni di teologia lontano dai bombardamenti e dalle battaglie che si svolgevano in pianura.

Una settimana dopo, il 14 febbraio 1945, fu la volta di altri sette frati – tra cui il provinciale fra Leo Petrović – che si trovavano nel convento di Mostar. Una volta conquistata questa cittadina, i partigiani li prelevarono dal convento, li incatenarono e li portarono in località Čekrk, dove li uccisero dopo averli spogliati del loro abito francescano, gettando poi i loro corpi senza vita nella Narenta (Neretva, in bosniaco).

Negli stessi giorni avvenivano altri eccidi di frati a Ljubuški, Izbično, Čitluk, Čapljina, Zagvozd e Vrgorac, a maggio furono uccisi due frati nella casa parrocchiale di Kočerin, mentre altri tre persero la vita nella lontana Macelj, non lontano da Slovenia e Austria, di ritorno da Bleiburg lungo la cosiddetta Via Crucis del popolo croato. Alla fine della guerra i frati della Provincia francescana piansero 66 confratelli uccisi.

La Via Crucis continuò per i frati rimasti. Nel dopoguerra il regime comunista organizzò processi-farsa e, nella totale assenza di serie prove di colpevolezza, 91 frati furono condannati a pene detentive, spesso ai lavori forzati, per un totale di 348 anni, dei quali ne vennero scontati 225. Negli anni Cinquanta, la Casa di correzione penale di Zenica fu a un certo punto la più grande comunità francescana dell’Erzegovina, poiché vi erano detenuti contemporaneamente una trentina di frati. Una vera e propria persecuzione collettiva.

Tali fatti non avvennero solamente in Erzegovina o nei confronti dei francescani, ma ovunque nella Jugoslavia comunista, soprattutto tra il 1945 e il 1955. Secondo i dati di don Anto Baković alla fine si contarono 663 vittime: quattro vescovi, 523 sacerdoti (di cui 17 morti di tifo per le conseguenze della prigionia), 50 seminaristi maggiori, 38 seminaristi minori, 17  laici, 31 suore.

Il piano di eliminare la Chiesa cattolica dalla Jugoslavia titina perseguitando i pastori fu particolarmente virulento in Erzegovina, terra natale del Poglavnik (Duce) Ante Pavelić e di tre ministri del governo dello Stato Indipendente di Croazia; una regione, quindi, che i comunisti consideravano il nucleo originario del “nazionalismo” e “sciovinismo” croato che avrebbe dato origine al movimento ustascia, e dei quali i francescani furono considerati i principali responsabili, poiché essi in tale regione detenevano l’egemonia religiosa e culturale.

Al di là dei vaneggiamenti tipici dell’ideologia comunista, in realtà attaccando i francescani si voleva condannare e spezzare il cattolicesimo in sé, poiché i francescani erano fedelissimi alla fede cattolica e alla Santa Sede, e rappresentavano un ostacolo alla creazione di una chiesa “nazionale” staccata da Roma e prona agli interessi del regime. Per sradicare la fede, l’identità e la cultura cattolica dalla popolazione dell’Erzegovina fu necessario colpire a morte proprio i produttori di tale cultura, i francescani, e la stessa cultura cattolica che ruotava attorno a essi, il centro di influenza della quale era Široki Brijeg, il suo convento e il suo ginnasio francescano.

Affinché nel territorio dell’Erzegovina avessero successo altri pretendenti, era necessario provocare la rottura dello status quo e l’eliminazione, anche fisica, dei rivali. I risultati furono disastrosi: i comunisti, infatti, pur avendo preso possesso delle strutture del ginnasio, non furono in grado di ricostruirlo e riportarlo all’antico splendore culturale.

I partigiani titini volevano uccidere il popolo nell’anima, farlo arretrare culturalmente e renderlo così ricettivo dei loro vuoti slogan. E, per fare questo, oltre a uccidere i frati, attuarono un vero e proprio culturicidio. A Široki Brijeg i partigiani distrussero tutto ciò che trovarono, non solo nel convento e nella chiesa – che per qualche tempo trasformarono in una stalla per cavalli – bensì fecero lo stesso anche nel ginnasio, dove distrussero l’intera biblioteca, i laboratori, il ricchissimo museo.

Fondato nel 1889 e diventato scuola di diritto pubblico nel 1918, immediatamente prima dell’inizio della Seconda Guerra Mondiale il ginnasio francescano aveva circa 400 alunni, dei quali ben due terzi erano figli di contadini, alunni esterni che non si preparavano alla vita sacerdotale e religiosa. L’idea dei francescani era di istruire, oltre ai propri alunni, anche i figli dei contadini, toglierli dall’ignoranza e renderli produttori essi stessi di cultura, cittadini consapevoli nella società in cui vivevano, elevarli socialmente così che non fossero più le vittime del prepotente di turno.

Il corpo docente del ginnasio, rappresentato per intero da francescani, era di un livello culturale elevatissimo: ben 15 tra i professori avevano conseguito il dottorato di ricerca nella loro materia. A parte qualche rarissima eccezione, al di là dell’amore per la loro patria croata, i francescani erano tutt’altro che inclini all’ideologia ustascia, anzi, essendosi formati quasi tutti all’estero, prediligevano forme di governo democratiche tipiche dei Paesi occidentali.

Come scrive fra Andrija Nikić in Na stopama pobijenih, bollettino della Postulatura per la beatificazione dei Servi di Dio fra Leo Petrović e 65 compagni, le autorità comuniste chiusero e proibirono la riapertura di tutte le istituzioni scolastiche dell’Ordine francescano: il ginnasio a Široki Brijeg, il noviziato di Humac e il Seminario francescano di Mostar. Il regime occupava tutti o la maggior parte dei conventi francescani in Erzegovina, numerosi appartamenti e case parrocchiali, ostacolando anche semplici lavori edili alle strutture francescane sopravvissute e bisognose di rifacimenti. Il regime aveva predisposto anche un decreto per l’abolizione della Provincia francescana dell’Erzegovina; e ai francescani fu ordinato di abbandonare completamente il convento centrale di Mostar. La Provincia sopravvisse solo perché il provinciale fra Mile Leko un giorno si recò a Belgrado da Tito, con lo stesso spirito – come disse il frate al dittatore – con cui al tempo dell’occupazione turca i frati andavano direttamente dal sultano per risolvere le questioni più scottanti. Alla fine, Tito cedette, e la Provincia fu salva.

Il sangue dei martiri francescani fu seme di nuove vocazioni, pur in un ambiente che era rimasto assai ostile alla fede cattolica e all’Ordine serafico. Nel 1971 la Provincia ebbe ben 25 nuovi novizi, e un totale di 271 membri. E soprattutto, 36 anni dopo, nel 1981, un tempo in cui la maggior parte degli assassini e dei persecutori dei francescani degli anni bellici era ancora viva, dalla terra di Erzegovina, intrisa del sangue di tanti martiri francescani, in una parrocchia francescana “tra i monti”, sorse quell’“Aurora di pace” che, secondo i piani di Dio, deve portare guarigione, conversione e salvezza al mondo intero.

È infatti un principio spirituale fondamentale della fede cattolica che la Croce è sempre anticipatrice di grazie, e che non c’è grazia che non sia preparata dalla Croce. Un oceano di grazia come quello che da quasi 44 anni si irradia da Medjugorje ha avuto come preludio proprio l’offerta della pesantissima Croce della persecuzione sofferta dai francescani e dalla popolazione dell’Erzegovina dal 1945 in poi.