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LA SENTENZA

Se la Cedu dà il via libera all’eutanasia per depressi

Nel caso Mortier vs Belgio, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha stabilito che né la legge belga sull’eutanasia né l’iniezione letale a Godelieva de Troyer, uccisa dietro sua richiesta a 64 anni perché depressa, violano l’art. 2 della Convenzione (diritto alla vita). Un precedente pericoloso, al netto della violazione riscontrata dai giudici di Strasburgo nella fase post-eutanasia.

Attualità 06_10_2022

Per la Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu), l’eutanasia va bene - anche praticando un’iniezione letale su una persona depressa - purché si rispettino determinate procedure e “garanzie” (i famigerati “paletti” della politica di casa nostra). In estrema sintesi è questo il succo dell’articolata sentenza pubblicata martedì 4 ottobre, riguardante il caso Mortier vs Belgio. Solo un punto su quattro della decisione si può considerare positivo - come vedremo - in un’ottica pro vita, ma nel complesso la sentenza è pessima. Prima, gli antefatti.

La sentenza nasce dal ricorso del belga Tom Mortier, figlio di Godelieva de Troyer, la donna di 64 anni che aveva richiesto l’eutanasia perché depressa e uccisa il 19 aprile 2012 attraverso un’iniezione praticata dal dottor Wim Distelmans, un oncologo, senza che lo stesso figlio fosse informato. Godelieva soffriva di depressione da una quarantina d’anni. Nel settembre 2011 aveva consultato il professor Distelmans, manifestandogli la sua intenzione di farla finita, e il medico aveva acconsentito ad esaudire la sua richiesta, in accordo alla legge belga sull’eutanasia. Distelmans e gli altri dottori coinvolti nella procedura avevano suggerito più volte alla donna di informare i due figli. Pur restia a farlo, nel gennaio 2012, Godelieva aveva mandato un’email informando la prole del suo desiderio di morire per eutanasia. La figlia aveva risposto dicendo di rispettare la volontà della madre. Invece Tom Mortier, secondo il fascicolo del caso, non aveva replicato. Negli incontri successivi con i medici, la donna aveva ripetuto di non voler chiamare i figli, limitandosi infine a scrivere una lettera di addio (non sappiamo se recapitata in tempo).

Il 20 aprile 2012, cioè il giorno seguente l’eutanasia, Mortier era stato informato dall’ospedale della morte di sua madre. L’uomo aveva quindi scritto al dottor Distelmans, lamentando di non aver potuto nemmeno salutare il genitore e l’impatto psicologico di un simile lutto. Di lì era nata la sua decisione, innanzitutto, di far esaminare a un medico di sua fiducia la cartella clinica della madre (quel dottore avrebbe poi notato, tra l’altro, che nel fascicolo mancava la dichiarazione di eutanasia) e, poi, nell’aprile 2014, di presentare una denuncia penale contro ignoti. La relativa indagine si sarebbe chiusa solo nel dicembre 2020, con l’archiviazione del caso da parte della procura belga, secondo cui l’eutanasia della signora de Troyer è avvenuta in accordo alla legge.

Nel ricorso presentato nel frattempo da Mortier alla Cedu, il ricorrente - assistito da Adf International - ha lamentato una serie di aspetti, fondamentalmente riassumibili in tre ambiti: 1) il Belgio ha violato l’articolo 2 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (diritto alla vita), perché la vicenda di sua madre dimostra che la legge sull’eutanasia non tutela le persone vulnerabili e, inoltre, non è neanche stata applicata correttamente; 2) è mancata un’indagine approfondita a livello nazionale sulle questioni sollevate dallo stesso Mortier, e ciò in violazione dell’art. 13 della Convenzione (diritto a un ricorso effettivo); 3) essendo stato incapace di proteggere la vita della madre di Mortier e avendo anche mancato di informare e coinvolgere il figlio nella decisione, il Belgio è venuto meno all’art. 8 della Convenzione (diritto al rispetto della vita privata e familiare).

La Cedu, per l’occasione composta da sette giudici, ha esaminato il ricorso rispetto ai soli articoli 2 e 8 (e non anche il 13). In particolare, le toghe hanno suddiviso l’analisi sul rispetto dell’art. 2 in tre sotto-punti, rinvenendo una sola violazione da parte del Belgio; secondo i giudici di Strasburgo, inoltre, non c’è stata nessuna violazione dell’art. 8. Vediamo ora più in dettaglio i giudizi della Cedu, ma con una precisazione: la Corte, nella sentenza, ha voluto preliminarmente specificare che «la presente causa non riguarda l’esistenza o meno di un diritto all’eutanasia» (rispetto a cui gli Stati mantengono un loro margine di discrezionalità), ma piuttosto «la compatibilità, con la Convenzione, dell’eutanasia come praticata nei confronti della madre del ricorrente» (n. 127).

IL QUADRO LEGALE GENERALE

Con un voto di 5-2, la Cedu ha ritenuto che le disposizioni della legge belga sull’eutanasia «costituiscano in linea di principio un quadro normativo atto a garantire la tutela del diritto alla vita dei pazienti come previsto dall’articolo 2 della Convenzione» (n. 155). Alla luce della ragione, appare una contraddizione in termini l’accostamento tra diritto alla vita ed eutanasia. Ma per i giudici non c’è nessuna violazione rinvenibile nel quadro legale generale che consente l’eutanasia in Belgio. Addirittura, «la Corte attribuisce grande importanza al fatto che siano previste garanzie aggiuntive per casi - come quello della madre del ricorrente - che riguardano sofferenza psichica e in cui la morte non si verificherà a breve termine» (n. 153).

La Cedu avalla quindi la realtà inquietante del piano inclinato, che interessa il Belgio (dove c’è una legge in materia dal 2002) e tutte le altre nazioni che aprono le porte all’eutanasia o ad altri mali. Si parte da regole apparentemente stringenti per pochi casi, e via via si finisce per permettere tutto. La signora de Troyer era fisicamente sana. Le suddette «garanzie aggiuntive» non hanno fermato la sua uccisione. E a nulla è valso che alcuni gruppi (come Eclj e Care Not Killing) intervenuti come terze parti abbiano spiegato che quando qualcuno soffre di disturbi mentali non ha senso giustificare l’eutanasia in nome della presunta “autonomia” e “libera volontà”.

IL QUADRO LEGALE NEL CASO SPECIFICO

Anche qui la Cedu ha votato per 5-2, stabilendo che il Belgio non ha commesso alcuna violazione per la specifica eutanasia della signora de Troyer. I giudici di Strasburgo rilevano che essa è stata compiuta in accordo al quadro normativo nazionale; i medici coinvolti nel caso hanno verificato «il carattere volontario, ponderato e ripetuto della richiesta, l’assenza di pressioni da parte di terzi e hanno riferito sofferenze insopportabili e senza speranza» (n. 159). Perciò, in base alle prove che le sono state presentate, la Cedu conclude che anche in questo ambito è stato rispettato l’art. 2 della Convenzione (cfr. n. 165 della sentenza).

LA REVISIONE POST-EUTANASIA

Questo è l’unico punto in cui la Cedu - peraltro con un voto all’unanimità - ha stabilito che il Belgio ha violato l’art. 2 della Convenzione.

Si tratta innanzitutto del controllo a posteriori sulla regolarità delle procedure di eutanasia realizzate nel Paese. Questo controllo è affidato alla “Commissione federale per la revisione e la valutazione dell’eutanasia”, che nel giugno 2013 aveva concluso che la morte procurata alla signora de Troyer era avvenuta in accordo alla legge belga. La Cedu riconosce e biasima il conflitto di interessi riguardante il dottor Distelmans, che era co-presidente di quella Commissione e che si sarebbe dovuto ricusare per il giudizio di quel caso, avendo lui stesso seguito e praticato l’eutanasia.

In secondo luogo, la Cedu lamenta la lunghezza dell’indagine penale, con riguardo alla prima fase della stessa (2014-2017; non rileva problemi, invece, per la seconda fase), in quanto gli inquirenti belgi avrebbero fatto passare tre anni senza porre in essere alcun atto d’indagine.

Dunque, «la Corte conclude che lo Stato è venuto meno al suo obbligo procedurale positivo sia per la mancanza di indipendenza della Commissione sia per la lunghezza dell’indagine penale» (n. 184).

ARTICOLO 8

Con una maggioranza di 6-1, la Cedu ha ritenuto che il Belgio non abbia violato l’art. 8 della Convenzione, in quanto i medici hanno fatto «tutto ciò che era ragionevole» (n. 207) per far sì che la madre contattasse i figli, posto che - in base alla legge belga - sta a chi avanza la richiesta di eutanasia decidere se informare o meno i familiari.


Tirando le somme, è una sentenza che la dice lunga sul relativismo imperante tra la maggioranza dei giudici della Cedu. Il fatto che la corte di Strasburgo lamenti una violazione della Convenzione nell’ambito delle procedure di controllo post-eutanasia non può accontentare chi si batte per la vita, visto che nella sostanza rimane il via libera tanto alla legge belga sull’eutanasia, quanto al caso specifico. «La sentenza è molto preoccupante, perché di fatto approva l’eutanasia, e questo distrugge l’articolo 2 della Convenzione, che dovrebbe proteggere il diritto alla vita», spiega alla Bussola l’avvocato Bruno Quintavalle, impegnato in varie battaglie giudiziarie in questi anni, tra le ultime quelle riguardanti i casi, con esiti opposti, di Tafida Raqeeb e Archie Battersbee. E se finora la Cedu aveva avallato i casi di eutanasia riguardanti la rimozione di sostegni vitali, stavolta è andata oltre: l’eutanasia per iniezione letale e su depressi, appunto. Un pericoloso “salto di qualità”.