Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
LITURGIA TRADIZIONALE / 3

Rito antico e nuovo: la contaminazione non nasce a tavolino

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Perché porti frutto l'arricchimento reciproco tra Vetus e Novus Ordo non è opera di "periti" ma della coesistenza e di una lenta maturazione. Nel frattempo anche nella Messa post-riforma occorre eliminare l'arbitrarietà e recuperare l'orientamento e il canto proprio.

Ecclesia 05_08_2025

Un tema di grande importanza toccato da padre Riccardo Barile nei suoi articoli dedicati a Vetus e Novus Ordo è senza dubbio quello del reciproco arricchimento. L’autore lo affronta descrivendo al lettore il proprio “sogno”, che si sostanzia nell’innesto di numerosi elementi del VO nella struttura del Novus. E sognare non solo può essere legittimo, ma può anche offrire interessanti spunti di riflessione, che è certamente l’intento per cui padre Barile ha voluto condividere il suo sogno.

Mi pare però che sia non senza una certa importanza richiamare qualche c∞onsiderazione su cui Joseph Ratzinger/Benedetto XVI ha voluto più volte insistere. La prima: bisogna resistere alla tentazione di pianificare il rito scaturito dall’arricchimento reciproco delle due forme. Più in generale, bisogna guardarsi da ogni tentativo di riformare la liturgia della Chiesa seguendo le congetture dei liturgisti, mettendosi a tavolino per creare un nuovo rito o nuove preghiere. Cosa che effettivamente accadde durante l’ultima riforma, almeno secondo le testimonianze di Louis Bouyer, che insieme a Dom Bernard Botte, fu incaricato di scrivere una nuova preghiera eucaristica (la seconda), prendendo alcuni elementi di quella presente nella Tradizione apostolica di Ippolito Romano, da altre fonti e da… un po’ di creatività! Bouyer ricorda: «Non posso rileggere questa inverosimile composizione, senza pensare alla terrazza del bistrot di Trastevere, dove dovevamo ultimare il nostro compito, per poterci presentare alla Porta di Bronzo all'ora stabilita dai nostri capi» (cf. Mémoires, Paris, 2014, p. 199). Una composizione letteralmente “a tavolino”, appunto.

Torniamo a Ratzinger. Egli aveva a ragione manifestato la propria allergia a questo approccio alla liturgia, non solo nella sua autobiografia, che abbiamo già citato: «Non possiamo fare a meno di constatare oggi l’esistenza di forti tendenze che concepiscono la liturgia come un meccanismo smontabile e rimontabile arbitrariamente, il che è incompatibile con l’essenza della liturgia. L’evoluzione della liturgia non può essere progettata a tavolino da dotte commissioni che valutano l’utilità pastorale e la praticità dei singoli aggiustamenti; bisogna procedere con il dovuto rispetto per ciò che reca in sé il peso dei secoli e valutarla con cautela se sia possibile, opportuno e sensato apportare tagli o inserire dei complementi» (in Davanti al protagonista, Siena, 2009, p. 113).

L’errore forse più esiziale che si può commettere oggi è quello di riparare agli errori della riforma con quello stesso metodo che misconosce la realtà della liturgia come organismo vivo, perché voce della Chiesa viva. Non si può trattare la liturgia come alla Conferenza di Berlino un gruppetto di Stati decise di tracciare i confini africani sulla base dei puramente teorici meridiani e paralleli, senza tener conto della viva realtà dei popoli e delle culture del continente.

Per questa ragione la “contaminazione” delle due forme, o meglio, dei due riti, potrà risultare benefica solo nella misura in cui essi potranno continuare a vivere e crescere l’uno di fianco all’altro. Predeterminare questo arricchimento significa tornare a costringere pericolosamente la liturgia dentro gli schemi preconcetti dei “periti” e finire per provocare mutazioni che non sono frutto di quella lenta maturazione, che ha il vantaggio della prova del tempo. Un organismo vivente tende ad assumere dall’ambiente ciò che è vantaggioso per la sua crescita e a rigettare ciò che alla prova dei fatti si è rivelato nocivo.

Seconda considerazione. Non è sempre chiaro, nel pensiero di Ratzinger, se questa contaminazione dovesse essere bilaterale. Sembra però, conformemente alla sua consapevolezza che la riforma aveva interrotto lo sviluppo organico della liturgia, che egli intravvedesse sì all’orizzonte la riunificazione dei due riti, ma sull’albero del rito antico, non di quello nuovo. Nella famosa lettera del 23 giugno 2003, che egli scrisse in risposta ad una missiva (6 aprile) del Dott. Heinz-Lothar Bart, così spiegava: «Credo tuttavia, che a lungo termine la Chiesa romana deve avere di nuovo un solo rito romano. L’esistenza di due riti ufficiali per i vescovi e per i preti è difficile da “gestire” in pratica. Il rito romano del futuro dovrebbe essere uno solo, celebrato in latino o in vernacolo, ma completamente nella tradizione del rito che è stato tramandato. Esso potrebbe assumere qualche elemento nuovo che si è sperimentato valido, come le nuove feste, alcuni nuovi prefazi della Messa, un lezionario esteso –­ più scelta di prima, ma non troppa ­–, una “oratio fidelium”, cioè una litania fissa di intercessioni che segue gli Orémus prima dell’offertorio, dove aveva prima la sua collocazione».

Si vede chiaramente che Ratzinger ritiene che la storia porterà a ricucire lo strappo della riforma, riprendendosi il rito antico, ma non esattamente com’era prima, perché nel frattempo esso avrà metabolizzato alcuni elementi positivi che la riforma ha messo in campo, purgandoli però degli eccessi: lezionario più esteso, ma non troppo; qualche nuovo prefazio (come già è avvenuto), ma non tutti; la preghiera dei fedeli, ma come litania fissa, etc. Di fatto, era questo l’intento del Concilio, così come espresso nella sua Costituzione liturgica.

Terza considerazione. Cosa fare nel frattempo? È evidente che ridare libertà al VO e conferirgli una struttura giuridica che gli permetta di esistere, svilupparsi, diffondersi è ormai imprescindibile. Per questo abbiamo sostenuto la proposta di una circoscrizione ecclesiastica. Dall’altra parte non è meno indispensabile che il NO, che continua ad essere il rito a cui la stragrande maggioranza dei cattolici latini partecipa, recuperi quegli elementi strutturali che lo ristabiliscano effettivamente come rito liturgico e riconducano i fedeli in quella continuità almeno minimale con la liturgia della Chiesa. Oltre ad una più intensa lotta agli abusi liturgici, non solo da parte del singolo sacerdote o della singola comunità, ma anche di intere diocesi o Conferenze episcopali, mi pare che siano almeno le tre le fondamentali e urgenti linee di intervento, almeno riguardo alla Messa.

La prima: restringere gli spazi in cui al sacerdote viene data libertà di scelta o di espressione. I fedeli sono travolti e nauseati dalle esortazioni, allocuzioni, considerazioni, riflessioni, saluti con cui i sacerdoti ritengono di dover “condire” la Messa; non meno problematica è la gestualità del sacerdote, che ormai è lasciata alla sua quasi totale arbitrarietà.

La seconda: l’orientamento liturgico. Non esiste e non è mai esistito nella liturgia un orientamento “versus populum” o, se preferite, il popolo non costituisce un punto di orientamento della liturgia, che è invece al cospetto della Maestà divina. A partire dalla liturgia eucaristia, il sacerdote dovrebbe orientarsi verso l’Est geografico o verso l’abside; su questo punto, ci si gioca nel concreto il senso della liturgia della Chiesa e del fine della vita cristiana. Orientare il proprio corpo verso Gesù Cristo, che sta per tornare a giudicare i vivi e i morti, dice più di tanti discorsi.

La terza: la liturgia riformata ha smarrito il suo canto proprio. Nonostante la riedizione critica del Graduale romanum, il canto gregoriano è sostanzialmente sparito dalle celebrazioni NO. E non per estinzione dei cantori e degli organisti, ma perché vescovi, rettori e parroci hanno pensato bene di sostituire questi “pezzi di antiquariato” con improvvisati cantori e musicisti, che propongono all’assemblea brani che ritengono più conformi alla propria personale sensibilità. Il tutto ovviamente per una vaga migliore partecipazione dei fedeli (i quali mediamente continuano a non cantare). Ne risultano cacofonie di ogni genere, ritmi che solleticano una superficiale emotività, testi per lo più banali e ripetitivi. La privazione del gregoriano e della polifonia sacra ha letteralmente svuotato la liturgia del suo senso profondo di adorazione e lode di Dio con la voce della Chiesa, nella comunione sincronica e diacronica. È una tristezza infinita constatare che oggi nella Chiesa non si ode più quella che per secoli è stata la sua distinta e riconoscibile voce.



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