Riscaldamento globale e soldi ai paesi poveri, la Cop29 parte male
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Quanto dare ai paesi in via di sviluppo, per aiutarli alla lotta al cambiamento climatico? Sostanzialmente è questo il tema della Cop29 che si è aperta ieri a Baku. Ma potrebbe essere l'ultima a cui partecipano gli Usa: Trump ha promesso il ritiro. L'Ue, da sola, farebbe ben poco.
Iniziata ieri, senza troppa enfasi e con molte diserzioni importanti, la nuova conferenza internazionale sul clima, la Cop29. Anche questa volta, come nella scorsa edizione, si tiene in un paese produttore di petrolio, l’Azerbaigian, nella capitale Baku (l’anno scorso, la Cop28 era a Dubai, negli Emirati Arabi Uniti).
La cornice in cui si svolge anche questa conferenza è sempre l’accordo di Parigi. L’intesa del 2015, fortemente voluta dall’allora presidente statunitense Barack Obama, si pone l’obiettivo di contenere il riscaldamento globale entro i 2 gradi centigradi e di proseguire gli sforzi per mantenerlo al di sotto degli 1,5 gradi rispetto ai livelli pre-industriali. La strategia seguita per ottenere questo obiettivo è una nuova forma di pianificazione industriale, indiretta, in cui lo Stato, in ogni nazione, deve imporre limiti all’emissione di gas serra e trovare strategie di assorbimento dei gas serra emessi.
Il focus di questa conferenza a Baku è sulla “finanza climatica”: si cercherà di stabilire il “Nuovo obiettivo finanziario per il clima” (Ncgq). In soldoni: quanto dare ai paesi in via di sviluppo, che non possono permettersi una transizione verde all’europea. Nel 2009, alla Cop15 di Copenaghen i paesi dell’Ue, gli Usa e altri paesi democratici industrializzati (l’Australia, il Canada, il Giappone, l’Islanda, la Norvegia, la Nuova Zelanda e la Svizzera) presero l’impegno di finanziare i paesi in via di sviluppo con 100 miliardi all’anno, fino al 2020, per realizzare progetti di mitigazione (riduzione del riscaldamento globale) e adattamento ai cambiamenti climatici. Nel 2015, con gli Accordi di Parigi, l’impegno venne rinnovato di altri 5 anni. Adesso siamo alle porte della scadenza e si cerca un accordo per rinnovarlo.
I paesi in via di sviluppo, tuttavia, vorrebbero essere anche risarciti per quelli che i loro governi calcolano come “danni del cambiamento climatico”. I paesi donatori non sono contrari, ma preferiscono istituire un fondo a parte, con una gestione separata, un fondo che era stato oggetto di dibattito anche nella scorsa Cop, a Dubai, nel 2023. Inoltre, i paesi in via di sviluppo chiedono, solo per le spese di mitigazione e adattamento, un finanziamento molto superiore. La stima di 100 miliardi all’anno, calcolata nel 2009, ora risulta insufficiente. La Commissione permanente sulla finanza dell’Unfccc (Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici) dopo aver raccolto le stime elaborate dai governi dei paesi in via di sviluppo, calcola che siano necessari almeno dai 5mila ai 9mila miliardi di dollari nei prossimi cinque anni. Inutile dire che il calcolo è elaborato da governi che hanno tutto l'interesse a ricevere più soldi possibili dai paesi più ricchi, stavolta non per la battaglia per lo sviluppo, ma per quella, ritenuta più urgente e universale, del clima.
Il presidente azero della della Cop29, Mukhtar Babayev, per questo motivo parla di “momento della verità” sull’Accordo di Parigi. Per non far mancare neppure il suo catastrofismo, afferma che «Siamo sulla strada della rovina». Ma il suo paese è il primo a dare il pessimo esempio. L’economia dell'Azerbaigian è trainata dal settore degli idrocarburi che rappresenta circa il 90% delle esportazioni del paese dal 30% al 50% del suo Pil, a seconda dell’andamento dei prezzi del petrolio e del gas. Una bella contraddizione, considerando che uno degli obiettivi strategici della decarbonizzazione è proprio l’eliminazione dei combustibili fossili.
L’Unione Europea è sempre stata la più zelante nella politica di riduzione delle emissioni. Ma i leader nelle nazioni più importanti che ne fanno parte hanno dimostrato di ritenere più importanti altre questioni. Sono infatti assenti sia Emmanuel Macron che Olaf Scholz. C’erano gli Usa, rappresentati dall’inviato John Podesta, l’ultima volta dell’amministrazione Biden ormai uscente. Il nuovo presidente, Donald Trump, ha promesso di ritirare gli Usa dall’Accordo di Parigi. Podesta cerca di rassicurare i suoi colleghi a Baku, affermando che «Mentre il governo federale degli Stati Uniti sotto Donald Trump potrebbe mettere in secondo piano l’azione sul cambiamento climatico, il lavoro per contenere il cambiamento climatico continuerà negli Stati Uniti con impegno, passione e convinzione», da parte dei privati e degli enti locali.
Ma cambierà completamente la filosofia di fondo: nessuno impedirà all’imprenditore, al sindaco o al governatore di essere coerentemente ecologista. Quel che Trump vuole evitare è la pianificazione industriale, a livello nazionale, le quote rigide sulle emissioni a livello nazionale, le restrizioni sullo sviluppo di tecnologie che siano ritenute troppo poco conformi al piano stabilito da Parigi. Tutte politiche che rischiano di far perdere agli Usa la competizione con la Cina. Il colosso asiatico, che formalmente aderisce a Parigi, ha infatti raddoppiato le sue centrali a carbone negli ultimi due anni. Non intende rinunciare al suo impetuoso sviluppo industriale per ridurre le emissioni.
Se anche gli Usa si ritirano, sarà l’Ue a rimanere col cerino in mano: con un programma di sostanziale de-industrializzazione che sta già provocando sconquassi in settori come quello automobilistico, con gravi conseguenze per l’occupazione. La sola Europa “decarbonizzata” non farà la differenza nella lotta globale al cambiamento climatico. Farà invece la differenza per gli europei: rendendoli più poveri.